Tanti segni
Linguetta #119 / Le parole polisemiche sono segnali di una lingua capace di portarci nello stesso momento dentro mondi diversi, e che funziona col pensiero analogico.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
La scorsa settimana ho seguito un corso sui libri a figure con l’esperta di letteratura Roberta Favia di Teste fiorite e l’illustratrice Claudia Palmarucci; e nella parte pratica abbiamo fatto un gioco linguistico: partire da una parola per costruire una mappa concentrica, che da una cosa concreta ci avrebbe condotto a diverse emozioni.
La parola era bottone, cioè una parola polisemica.
Dentro una parola possono abitare diversi significati.
E ancora di più ce ne possono stare dentro un’immagine, che è in grado di svelare i sensi figurati. Claudia Palmarucci l’ha spiegata in maniera efficace, così:
Nella parola sedia sono contenute tutte le sedie del mondo.
L’immagine di una sedia rappresenta solo quella sedia lì.
Allo stesso modo funziona con le parole polisemiche, per cui alla parola bottone1 la mia mente ha subito visualizzato due cose: un bottone da allacciare e un bottone da premere. Ecco, una parola semplice come bottone contiene già due cose diverse.
La polisemia è segno di quella ricchezza che sta dentro ogni sistema linguistico, capace di farci vedere le sfumature.
Funzioniamo secondo questo meccanismo di tonalità, cioè per analogie.
Questa capacità umana di collegare cose, anche in maniera imprevista, la uso spesso personalmente per dare forma a un’idea e l’ho usata anche con ragazze e ragazzi delle superiori in alcuni laboratori di scrittura, nella fase iniziale di ricerca: si parte da una parola-pianeta e poi si inizia a girare verso altre zone dello spazio circostante, muovendoci per associazioni libere.
Lo stesso procedimento che si usa nel naming, cioè nello studio per scegliere il nome di un prodotto/servizio.
Uno stesso segno può condurre in posti diversi.
Analogie pensanti
Ai mondi diversi che una parola polisemica porta con sé ci ho pensato anche leggendo il pezzo del Tascabile Tradurre, creare, produrre in cui Riccardo Rinaldi conversa con la traduttrice Silvia Pareschi sui limiti dell’intelligenza artificiale nella traduzione letteraria.
A un certo punto Pareschi confronta un estratto di Mrs Dalloway di Virginia Woolf copiato in DeepL (traduttore allenato tramite intelligenza artificiale) con la traduzione fatta da Anna Nadotti, e dice:
Anche in questo caso, naturalmente, non c’è gara. Oltre a non saper cogliere la polisemia […] la macchina massacra la delicatezza ritmica di Woolf, abbatte le causali, maciulla il significato.
Con quest’esempio e con uno precedente da Rick Moody nella traduzione di Claudio Sergio Perroni, Silvia Pareschi nota “l’uso magistrale del ritmo e l’inventività nelle metafore” da parte degli umani rispetto al lavoro di un’intelligenza artificiale2. E precisa:
Le macchine possono “creare” qualcosa di nuovo, di originale? Possiamo dire di sì, se per creatività intendiamo il collegamento di varie nozioni preesistenti per formare un’idea nuova.
Ma la letteratura non è una scienza esatta: in essa l’originalità non nasce da “contenuti” ingeriti e rimescolati, ma dalle esperienze di vita, dall’interazione tra individuo e società, dai voli di fantasia, dalle emozioni, dalla memoria del vissuto e da come questa si combina con il carattere dell’individuo, dando forma a ciò che ciascuno di noi pensa e dice – e dunque scrive – in modi che nessuna macchina è in grado di replicare".
Si tratta di libere associazioni, che mutano a seconda di chi le pensa.
Proprio com’è capitato a me nel gioco linguistico d’inizio puntata, e ogni catena cambia da persona a persona proprio perché ciascunə ha una propria esperienza, una visione particolare, un modo unico di ricombinare nella testa le figure evocate da una stessa parola.
Lingua limpida
Le parole polisemiche mi sembrano degli scintillanti coltellini svizzeri, multiuso, con cui fare cose diverse. Lo sono ad esempio:
coda: del cane, dei capelli, di un pianoforte, di persone in negozio, di automobili al casello, di uno spettacolo, del frac, sonora.
penna: per scrivere, di un uccello, come plettro della chitarra, al sugo.
banco: del pesce al mercato, di scuola, al casino, di pesci, dei pegni, di prova, di credito, di ghiaccio.
Ma possono pure essere parole che dicono una cosa e il suo contrario, cioè appartenenti alla sottocategoria delle enantiosemie (dal greco enantíos, ‘contrario’, sḗma, ‘segno’). Tipo:
affittare: prendere in affitto / dare in affitto.
alto: essere in alto mare (profondo) / trovarsi in alta montagna (altitudine).
lasciare: abbandonare / conservare (qualcosa per qualcuno).
ospite: chi ospita / chi è ospitato.
La polisemia racconta di una lingua in grado di esplorare il mondo con parole passepartout, che aprono porte diverse con una parola dallo stesso profilo.
In modo controintuitivo le parole polisemiche sono anche parole terse, come il cielo che ho sentito nominare in una breve previsione meteo in tv.
L’aggettivo terso restituisce bene la brillantezza della lingua di cui parlava la traduttrice Silvia Pareschi: cioè di un dispositivo umano che dentro al suo significato di trasparente che vira al lucido contiene diverse rappresentazioni: un cielo cristallino, la lama lucente di un coltello, un calice accuratamente asciugato, un pavimento di mattonelle splendenti, un romanzo senza sbavature, una fotografia limpida.
Anche in un piccolo aggettivo così sta il nitore della polisemia.
P.S.
Rieccoci ancora una volta a scavallare nella notte tra domenica e lunedì, vabbe’ dai, comunque ci siamo. E stavolta chiudo con un sondaggio letterario, perciò preparate il dito o il mouse per farmi sapere la vostra.
🖊️ Inversi
Oggi pochi versi da una poesia di Emily Dickinson nella traduzione di Silvia Bre.
Una parola muore
Una parola muore
appena è detta
dice qualcuno –
Io dico che comincia
appena a vivere
quel giorno.
📚 Un posto speciale
Il consiglio è per l’albo illustrato (o libro a figure) L’altalena di Britta Teckentrup (traduzione di Sante Bandirali), che fa emergere luoghi, memorie, tempi diversi, a seconda di chi ci entra dentro. È la storia di un’altalena, che sta su promontorio davanti al mare e attraversa le vite di tante persone. A suo modo, è un potente oggetto polisemico.
🎥 Sopravvivenze
C’era in un cinema di Brescia, e ci sono andato subito: il film che consiglio è The Holdovers di Alexander Payne, regista che avevo già amato per A proposito di Schmidt, Sideways – In viaggio con Jack, Paradiso amaro, Nebraska. C’è sempre una sfumatura malinconica che percorre il cinema di Payne, e qui c’è soprattutto Paul Giamatti, che nel ruolo di un colto e odiato professore di storia in un liceo americano (siamo nel 1970) restituisce alla perfezione il senso di disagio esistenziale e la capacità di pensarsi dei personaggi. Si ride e si piange, parecchio.
Secondo consiglio è per La società della neve di J.A. Bayona, che mi era piaciuto un sacco alla direzione di The Impossible, film sulla storia vera di una famiglia colpita dallo tsunami del 2004 in Thailandia. Anche qui c’è una storia vera, che era già stata filmata nel 1993 in Alive – Sopravvissuti da Frank Marshall: lo schianto di un aereo uruguaiano con 40 persone a bordo (quasi tutte ventenni) sulla Cordigliera delle Ande, mentre erano in rotta verso Santiago del Cile (siamo nel 1972). Come sempre è la forma della narrazione che fa la differenza, e una delle cose che più mi sono piaciute è l’uso sporco della tecnica registica. Siamo lì con chi sopravvive, con chi morirà, con chi racconta quei due mesi e mezzo atroci nel ghiaccio andino. Sta su Netflix.
🎧 Quella cosa che…
L’aveva citato Matteo Bordone nel suo podcast Tienimi Bordone, e mi sono fiondato subito ad ascoltarlo: sto parlando di Evacuazioni, un podcast che parla di cacca. Lo tiene Jacopo Cirillo, con la consulenza del Centro medico Santagostino e invitando ogni volta un ospite diverso. Preciso, divertente, scientificamente accurato e in grado di liberarci di tanti preconcetti e tabù su quella cosa marrone che ci accomuna tuttə. Vi linko qui sotto la prima puntata È fatta così, con ospite la gastroenterologa Francesca Jaboli.
Mi sa che è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Esploriamo le sorprendenti vie della polisemia, usando prima di tutto il 💖, lo stesso cuore che sta qui sotto e che potete pigiare per dirmi se v’è piaciuta la puntata.
Per lasciare un commento c’è lo spazio lì accanto, ma vi aspetto pure via mail, oppure dentro le Notes con un restack della puntata (cioè pigiando la rotellina con le due frecce accanto al simbolo dei commenti).
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Per la cronaca, questa è la raggiera di parole che la mia testa ha scritto partendo da bottone:
bottone - buchi - neri - nubi - pioggia - freddo - solitudine
bottone - occhi - coraline - mamma -controllo - amore
bottone - fessure - tombino - it - male
bottone - gilet - maglia - nonno - memoria - passeggiate - autunno - calma
bottone - botte - bottaio - spoon river - lapide - morte
bottone - pulsante - button button (richard matheson) - pericolo - vuoto
Di intelligenza artificiale tornerò a parlare prossimamente in altre puntate di Linguetta (come avevo già fatto in No robotismi e Nuove intelligenze).
Le parole come coltellini svizzeri, perfetto. Sono creature indipendenti (e noi pensiamo di poterne fare ciò che vogliamo) e dotate di un proprio giudizio e singolari bizzarrie. Ed è vero: appena pronunciate iniziano a vivere. Bellissima.
Ehm... io li chiamo “libri illustrati” ma manca quella possibilità 😜