Ripetere
Linguetta #153 / Spesso leggiamo le ripetizioni come errori, ma le forme linguistiche che si replicano definiscono diversi contesti d'uso e consentono di ascoltare meglio.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Nello scrivere l’introduzione della puntata Raccogliendo avevo una vaga sensazione di avere già usato l’esempio dell’espressione siciliana Sto tornando, ma non ne ero sicuro; e invece sì che l’avevo usata, nella puntata In relazione.
A volte ci ripetiamo, anzi spesso. O forse non facciamo altro che ripeterci in un gioco di infinite combinazioni.
La lingua è fatta soprattutto di ripetizioni che si rincorrono senza nemmeno saperlo: blocchi, strutture, pezzi che a un certo punto scorgiamo perché sono finiti a una certa distanza, diciamo più ravvicinata.
Ed è così che si sedimenta dentro di noi, se già alla scuola elementare qualcunə ci dice che ripetersi è un errore, che la lingua italiana è ricca e va esplorata e usata in tutte le sue sfumature. Che è una cosa vera, e ci aiuta ad avere tante parole da usare.
Però la differenza sta nell’uso, di quelle parole: sta nel contesto, nel registro, nello stile che decidiamo di usare. L’uso dipende sempre dall’intenzione di chi scrive.
Ripetere è ascoltare
Quando una persona ci chiede di ripetere perché non ha capito quello che le abbiamo detto, in quel momento stiamo esercitando la capacità di metterci in ascolto.
La ripetizione diventa la frequenza su cui riusciamo a sintonizzare un dialogo.
Ripetere contiene anche le parole pazienza e attenzione, che portiamo verso le altre persone, ma in un certo senso verso noi stessə: ripetere ci consente di pulire quello che abbiamo detto, di lucidarlo, di fare funzionare meglio la comunicazione.
La ripetizione misura la capacità di farci capire.
Ripetere ci obbliga a rivedere quello che diciamo/scriviamo e ci ricorda quanta responsabilità abbiamo nell’usare le parole per fare funzionare le persone.
Ad esempio, può riguardare il plain language che un’amministrazione pubblica dovrebbe sempre usare, fatto di parole afferrabili da chiunque; o ancora di più il linguaggio facile, che proprio sulla ripetizione costruisce la sua efficacia.
Ne avevo parlato nella Linguetta 67, ma mi ripeto qui volentieri, citando di nuovo il bel pezzo Il linguaggio facile da leggere e da capire scritto da Floriana Carlotta Sciumbata per il portale Treccani.
Si tratta di una lingua semplificata per persone con difficoltà intellettive, e comunque comprensibile per chiunque faccia fatica, per vari motivi, con la lingua (persone che non hanno potuto andare a scuola, persone arrivate da poco tempo da un paese straniero, bambinə).
È una lingua che parla a tuttə, a prescindere dal livello di competenza.
Soprattutto, è una lingua che non ha paura di ripetersi e slegarsi da formalismi che la ingessano e la rendono inservibile.
Dire e ridire
‘Ripetere’ viene dal latino repetĕre (derivato di petĕre, cioè ‘chiedere’, ‘avviarsi verso’). E quel prefisso re- richiama un movimento di raddoppio, un ritorno.
Ripetere è come chiedere due volte.
Possiamo fare questa richiesta a un’altra persona, oppure a noi stessə: allora ripetiamo la lezione che dobbiamo tenere, ripetiamo un discorso da fare, ripetiamo una poesia da imparare a memoria, ripetiamo battute da inscenare. Ripetendo ci diciamo le cose perché diventino più chiare, perché siano più nostre.
Ripetere diventa un esercizio, e accade come nella 27° variazione di Esercizi di stile di Raymond Queneau (traduzione di Umberto Eco).
Qui sotto copio-incollo l’attacco della variante numero 1 (Notazioni) tra le 99 costruite da Queneau, e la numero 27 (Insistenza), che gioca proprio con la figura della ripetizione:
Notazioni
Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato.Insistenza
Un giorno, verso mezzogiorno, salii su di un autobus quasi pieno della linea S. Su di un autobus quasi completo della linea S c’ era un giovanotto piuttosto ridicolo. lo salii sullo stesso autobus di costui, di questo giovanotto, salito prima di me su questo stesso autobus della linea S, quasi completo, verso mezzogiorno, portando in testa un cappello che trovai assai ridicolo, io che mi trovavo sullo stesso autobus su cui stava lui, sulla linea S, un giorno, verso mezzogiorno.
Si può scrivere ripetendosi, e disegnando così paesaggi differenti.
Allora la ripetizione diventa il segno di uno stile, come accade con il linguaggio dello scrittore Paolo Nori, che è costruito sulla ripetizione per farci sentire di più quello che succede. E noi ci stiamo, dentro il gioco della ripetizione, e dentro la storia che ogni volta ci racconta. Usando la ripetizione (di parole e punteggiatura) come congegno che arricchisce la storia.
Ecco un estratto di Favola di Kevin, che fa parte di Tredici favole belle e una brutta:
E tutti i pomeriggi, siccome giocavano contro una squadra di bambini di otto anni, con le magliette blu, che vincevano sempre loro, quelli di otto anni, non perché erano più bravi, perché erano più grandi (cioè forse erano anche più bravi, ma sicuramente erano più grandi), tutti i pomeriggi, dicevo, Kevin tornava a casa che piangeva.
Gli veniva un nervoso, a perdere tutti i pomeriggi, che a guardarlo ti veniva il dispiacere: stavi male per lui.
Serve tempo per imparare a scrivere ripetendo, ed è un po’ come allenarsi a correre: non basta infilare le scarpe e uscire qualche volta, ma ripetersi con costanza; e serve pure fare le ripetute, cioè quei brevi sprint/allunghi che danno più forza e velocità alla nostra corsa – come spiegano bene quelli di Runlovers in questo pezzo.
Ripetere è una questione di frequenza, frequentazione, ritmo.
E per sentire il ritmo, nostro e delle altre persone, serve continuare ad ascoltare. Come capita quando leggiamo un libro a figure con bambine e bambini, e arrivatə alla fine della storia ci sentiamo dire: “Ancora!”. E tutto si ripete.
🖊️ Inversi
Oggi pochi versi da Silenzio assenzio di Massimiliano Tappari, che raccoglie 105 istantanee e giocose poesie. Ecco la numero 28:
La nostra vita
non è una rima bacita.
📚 Giocare è futuro
Con un titolo così, come faccio a non consigliarvi: Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow di Gabrielle Zevin (traduzione di Elisa Banfi). Stati Uniti, 1995, ma poi ancora più indietro, nell’infanzia, dove spesso inizia la passione per i videogiochi, o almeno ci è nata per Sam e Sadie. I videogiochi pervadono la storia, sono la rifondazione della speranza, perché in un videogioco si può sempre ripetersi anche dopo il game over. O no?
🎥 Gesti ritornanti
Le riletture sono ripetizioni. A vent’anni di distanza sto rileggendo la serie tv che ha generato la serialità letteraria in cui stiamo immersə. Già, ho ricominciato a vedere Lost. E rimetto a fuoco dettagli, nuovi o dimenticati. Sta su Netflix.
A loro modo hanno a che fare con uno schema ripetitivo anche due film che ho visto di recente:
The Outfit di Graham Moore. Un sarto (Mark Rylance) che misura, disegna, taglia, cuce, piega, stira in maniera ripetuta i vestiti che confeziona nella sua bottega di Chicago, nel 1956. La paziente ripetizione dei gesti in una storia che si spacchetta un po’ alla volta. E non è un documentario sull’artigianato. Si vede su Netflix.
Il maestro giardiniere di Paul Schrader. Un giardiniere (Joel Edgerton) che descrive, pianta, separa, sistema giorno dopo giorno i fiori nel giardino di una tenuta del sud degli Stati Uniti. Ma quei gesti sapienti e sempre misurati nascondono storie che non possono più dirsi. Per ora solo al cinema.
🎧 Morire senza morire
Si può ripetere la morte, pur non essendo mortə? Sì, se a vivere e raccontare quelle morti, è Paolo Nori, nei sei episodi di Due volte che sono morto. È su RaiPlay Sound.
Mi sa che è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Ripetiamo le cose che fanno funzionare le persone, che in fondo basta usare il 💖, lo stesso cuore che sta qui sotto e che potete pigiare per dirmi se v’è piaciuta la puntata.
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Da quando leggo per e con le mie nipoti ho scoperto il piacere della ripetizione, a un certo punto addirittura a memoria, perché impariamo la sequenza esatta delle storie a furia di ripeterle, tanto da poterle dire pure a libro chiuso. E ogni volta scopriamo sfumature nuove, un'inflessione diversa per la stessa parola, proviamo un tono nuovo. A volte lo facciamo apposta: stavolta la leggiamo tutta ridendo, stavolta la leggiamo tutta facendo il vocione, stavolta la sussurriamo, e così via.
“Silenzio assenzio” è un titolo meraviglioso!!