Voce del verbo educare
Linguetta #65 / Le cattive parole del ministro dell'Istruzione sono l'opposto di una lingua come strumento di espressione libera, mutevole e rispettosa della parità.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Ricordo che quando alle elementari stavamo imparando i verbi, partivamo da lì per definire e capire di che azione si trattava, da “voce del verbo…”. Prendiamo ad esempio la forma verbale educando: prima di essere di modo gerundio e tempo presente, è voce del verbo educare.
Ci ho ripensato in queste settimane a quest’espressione grammaticale ‘voce del verbo’ che abbiamo nelle orecchie fin da piccolə, quando iniziamo a incasellare i verbi, che sono poi le azioni che ci fanno muovere nel mondo.
Ci ho ripensato soprattutto dopo le sconfortanti parole del ministro Valditara sull’umiliazione come fattore fondamentale della crescita e sulla punizione come sistema educativo.
L’opposto di quello che la parola educazione ci racconta, provenendo dal latino edùcere, cioè ‘condurre fuori’, ‘tirare fuori’.
Educare è liberare il potenziale che sta dentro ciascunə di noi.
Ed è proprio il contrario del pensiero punitivo espresso da Valditara e dagli sproloqui istintuali di chi giudica ogni atto bullistico o azione violenta con il facile attrezzo del “bisogna rieducarli”, “marciscano in galera” e compagnia bella.
A proposito ne ha scritto
nel pezzo Il bullismo non è un problema dei giovani sulla rivista La Svolta. Un estratto:La risposta non può essere “non dargliela vinta”, ovviamente, perché siamo tutti eroi con la vita bullizzata degli altri. Ma non può essere nemmeno “umiliamo i bulli”. […]
La cura per il bullismo è l’empatia, è l’educazione e l’abitudine a mettersi nei panni dell’altro, cosa che purtroppo la rete e i social rendono più complesso.
Ecco il punto: sintonizzarsi con le altre persone, capirle, vedere insieme come fare a riparare le cose. Educarsi, perché l’educazione è sempre un processo di scambio bidirezionale: chi educa impara e viceversa.
Le parole creano mondi
C’entrano sempre, le parole. Con la lingua diamo forma ai pensieri e alle azioni che ne scaturiscono.
È come se le parole che usiamo fossero biglietti per cambiare il futuro.
Le parole possono costruire o cancellare, possono definire i confini degli scenari e anche decidere di restringerli fino a farli scomparire. Come accade in carcere, dove un linguaggio fatto di diminutivi marca la differenza tra chi può e chi non può, chi esercita un potere e chi lo subisce. L’ho imparato dall’ultima puntata della newsletter Piombi, in cui la giornalista Federica Delogu dice:
Nel linguaggio del carcere tutto diventa piccolo. Un linguaggio di diminutivi dove ogni cosa è la versione ridotta del mondo esterno.
Chi entra in carcere quel linguaggio diminuito lo impara subito, lo interiorizza e naturalizza. […] Quindi i reclusi non compilano un modulo per avere qualcosa ma fanno la “domandina”, non scrivono un giornale ma un “giornalino”; e chi si occupa della spesa è lo “spesino”, chi della pulizia lo “scopino”, chi fa l’idraulico è lo “stagnino”.
Non c’è responsabilizzazione in questo linguaggio, né autonomia.
Tutto, nell’essere più piccolo del normale, diventa meno importante, non necessario, di poco conto. E agisce in senso fortemente infantilizzante, perché le persone detenute diventano in questo gioco delle parti bambini che devono sempre chiedere il permesso.
È un linguaggio che appiattisce, che schiaccia le persone come se fossero soltanto cartonati o figurine di cui disfarsi, prima o poi.
E il paragone finale con i bambini mi permette di aggiungere una cosa che ruota sempre attorno al principio educativo: anche al di fuori del carcere, nel mondo libero, la tendenza è di ridurre bambini e bambine a personaggi bidimensionali, che non hanno corpo (elettorale), che non hanno potere d’acquisto (se non per essere bersaglio di indecoroso marketing), che vengono esclusə dai processi decisionali, che non hanno peso nella vita civile e per questo diventano un fondale in attesa che lo spettacolo (alias la maggiore età) inizi — e pure allora le cose non migliorano di molto.
I lavori di bambini e bambine sono sempre “lavoretti”, il gioco diventa un “giochino”, un libro da leggere diventa un “libriccino”.
Ma bambini e bambine non sono adulti in miniatura, sono persone come le altre.
E usare la lingua come se fossero persone incomplete, manchevoli di qualcosa, è un atto di bullismo, è un gesto che esclude e nega libertà personali nello stesso modo in cui esclude e nega l’essenza di chi sta dietro alle sbarre.
La lingua ci forma, in ogni momento, luogo, situazione che ci troviamo a vivere nel corso di una vita, senza che attorno a noi si debbano formare gabbie. Soltanto che spesso è quello che accade, come racconta bene questa tavola di Zerocalcare nel reportage Lontano dagli occhi, lontano dal cuore scritto nell’estate 2021 per Internazionale:
☞ E sull’Essenziale trovate anche il reportage La voragine con cui Zerocalcare riflette sulle condizioni carcerarie di chi sconta una pena con il regime di detenzione 41-bis.
Praticare l’uguaglianza
Escludere persone dalla cerchia della partecipazione, che stiano scontando una pena in una prigione o che siano fragili come bambini (o chiunque non abbia canali e mezzi per esprimersi) significa cancellare pezzi di mondo.
Come se diventare grandi regalasse la patente per esistere in maniera completa, quando dentro il mondo invece ci stiamo tutti e tutte, senza distinzioni d’età.
La lingua che azzera questi naturali diritti a fare parte di una comunità è una lingua burocratica, che pensa solo in termini di efficienza e non di relazione. Che non vede persone, soltanto numeri.
Mi ci ha fatto pensare una riflessione di alcuni genitori rispetto a una scuola elementare che sta in un paese vicino al mio, abbastanza esteso e con quattro scuole sparse sul territorio: dall’anno prossimo tre di queste dovranno convogliare chi arriva dall’infanzia verso l’istituto più grande di tutti, perché le direttive impongono “classi-pollaio” da 25-28, costringendo in tanti casi i genitori a portare figli e figlie più grandi nella vecchia scuola e quelli che frequenteranno la prima elementare nell’istituto più grande. Di fatto costringendoli a salti mortali quotidiani per portarli al mattino e prenderli il pomeriggio in due sedi diverse, oltre a separare fratelli e sorelle che magari sognavano di andare a scuola insieme.
Sono regole incise in un regolamento ministeriale, riportate ai provveditorati provinciali e poi calate sulle famiglie.
Sono regole fatte da parole, create da persone; però sembrano leggi bibliche, intoccabili, immutabili. “Immoribili” come direbbero i miei nipoti.
Eppure le parole muoiono, nascono e rinascono continuamente perché la lingua cambia continuamente in funzione della società. E viceversa. Non riuscire (o non volere) vedere questo principio educativo è da sciocchi, anzi da bulli.
E i bulli non rispettano il principio di uguaglianza, cioè avere pari dignità nella varietà.
Solo una società che garantisca le stesse condizioni a chiunque, porta chiunque a confrontarsi, discutere, aprirsi, cioè a quella pratica di vita in comune di cui parlava la scrittrice bell hooks in Insegnare comunità:
Bisogna riuscire ad espandere la “coscienza critica” per rifiutare le ideologie del dominio.
L’invito invece del divieto, il sorriso invece del muso, il fare sul serio invece del prendersi (troppo) sul serio, l’ironia invece del sarcasmo. Tutte cose che possiamo fare usando le parole, che stanno già dentro ciascunə di noi: basta educarle, le parole; cioè tirarle fuori. Senza umiliazioni.
P.S.
Ormai Linguetta continua a saltare come una ranocchia tra martedì, mercoledì e giovedì. Prendiamola così. Che poi l’unica cosa che conta è che sia utile a chi la legge. Insomma, io speriamo che me la cavo anche stavolta.
📚 bell hooks + Wolf Erlbruch
bell hooks era lo pseudonimo di Gloria Jean Watkins, la scrittrice che è morta l’anno scorso, che io ho iniziato a scoprire proprio pochi mesi prima della sua morte e che spero possano scoprire sempre più persone anche in Italia. Non c’è refuso: bell hooks scritto in lettere minuscole, perché anche nel nome scardinava la norma di un canone imposto, dando identità visiva alla pratica intersezionale del fare comunità. Intrecci orizzontali fra le persone. Allora i consigli letterari di questa puntata sono due suoi libri: il già citato Insegnare comunità: una pedagogia della speranza e La volontà di cambiare. Mascolinità e amore.
Wolf Erlbruch invece era un illustratore e autore di libri per bambinə e ragazzə, ed è morto lo scorso 11 dicembre. Uno dei suoi libri più perfetti e conosciuti è L’anatra, la morte e il tulipano, un albo illustrato che porta in scena direttamente la morte, con una delicatezza che riesce a entrare nella testa di chi legge e chi ascolta la storia. Sì, a bambini e bambine si può parlare anche della morte, ed è una cosa che capiscono; anzi, sono molte le cose che capiscono più e meglio dei grandi. Prendetelo questo libro, leggetelo ad alta voce. Si sente subito che è un libro che non ha età: non invecchia e parla a tutte le persone, piccole e grandi.
🗞️ Essere apprendistə
Tre pezzi che hanno al centro la scuola, i bambini, la lingua:
Uno sta sul Tascabile e parla proprio di bell hooks e del suo costruire una comunità educante.
L’altro l’ha scritto Vanessa Roghi sul Post, ragionando sul voto numerico (come pedagogia dell’umiliazione) e sul senso di una scuola che è buona se sa cambiare.
L’ultimo è nella newsletter The Period, l’ha scritto Corinna De Cesare e riflette sul machismo nell’educazione dei bambini.
📺 Guillermo mon amour
Due cose che ho visto su Netflix, due cose che ha fatto Guillermo del Toro.
Uno: il suo Pinocchio, che è una magia per occhi e orecchie per come ha saputo creare (in stop motion) l’ennesima interpretazione di una delle fiabe-chiave del mondo. Ah, non è un film per piccoli umani.
Due: la serie tv Cabinet of curiosities, otto episodi che usano il meccanismo della Wunderkammer per portarci dentro storie legate da aspetti orrorifici, dirette da otto registi e registe diverse. Un’antologia che ricalca (anche nell’introduzione a ogni episodio) la mitica serie Alfred Hitchcock presenta, e che invita a entrare chiunque, anche chi non frequenta il genere horror, perché non ci sono spaventevoli mostri che vi assilleranno nei vostri sonni notturni ma storie ben concepite, rifinite e che vi faranno un po’ pensare ai rapporti con le cose e l’oscurità, un po’ come faceva Black Mirror.
🎧 Le tare di chi stigmatizza
Per chi va di fretta, direi che nella puntata del 24 novembre scorso di Non hanno un amico Luca Bizzarri riesce a sintetizzare benissimo i “Valditarismi” che minano il pensiero educativo. Buon ascolto.
E questo è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
L’educazione parte sempre da lì, dal 💖. Che è lo stesso che trovate qui in fondo: pigiatelo pure per dirmi se v’è piaciuta la puntata.
Come dicevo la scorsa settimana in Cha cha chat, Substack ha fatto le cose per bene per diventare un buon ecosistema sociale e ha attivato anche la chat. Quindi, se vogliamo scriverci c’è anche questa possibilità dentro l’app; altrimenti come sempre ci sono i commenti qui sotto oppure un caro messaggio via mail.
Per taggarmi sull’Instagram invece, basta cercarmi come andrjet.
Bellissima. Noto sempre più (sarà che leggo il Post e ascolto Costa) che la sensibilità verso il carcere sta aumentando e mi pare una cosa molto civile, sempre più civile.
E il linguaggio che crea mondi, esattamente.