Ricordare
Linguetta #121 / Perdere una persona ci fa mancare le parole, e l'unica che possiamo usare per continuare a farla esistere è quella che ci portiamo addosso tuttə: il nome.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Non esiste nella nostra lingua una parola per descrivere due genitori che perdono un figlio. È qualcosa che non si riesce a dire.
E noi che restiamo, le perdiamo tutte, le parole.
Ci ho pensato dieci giorni fa, quando è morto in un incidente un mio amico, uno di quelli con cui abbiamo attraversato la parte scintillante dell’essere bambinə, ragazzə, giovani.
Anche se diventando grandi ci si è visti molto di meno, quando perdi all’improvviso qualcuno che hai conosciuto da vicino, è come se si rompesse qualcosa dentro.
La lingua però riesce a dire, anche quando non trova le parole per farlo.
Perché la lingua è fatta pure di gesti che usiamo, della prossemica con cui muoviamo il nostro corpo nello spazio delle persone, ed è fatta di silenzi.
Le parole sono misurate, nel dolore. Ne servono poche, e la letteratura ce ne dà tanti esempi; anche se è opera di finzione, tiene dentro emozioni umane e riesce spesso a condensarle in brevi scene, che poi per qualche motivo rimangono appese alla nostra memoria.
Nella mia memoria c’è quella del Signore degli anelli - Le due torri, quando re Theoden, assistendo al funerale del figlio Théodred, getta un fiore sul suo sepolcro e dice:
Ricorda sempre.
Aggiungere, non dimenticare
Quando muore una persona che in qualche modo ci è stata vicina, diciamo che abbiamo perso qualcunə, cioè succede che ci manca qualcosa. Come se avessimo smarrito una parte di noi stessə.
Ogni volta che perdiamo qualcunə, il nostro paesaggio si sfalda.
Eppure la parola perdita, che sembra levarci qualcosa da dentro, ci rivela, con quel per, che da lì in poi percorriamo una deviazione, che ci porta ad avere qualcos’altro. Perdendo, non dimentichiamo ma aggiungiamo: cioè ricordiamo.
Il ricordo è una somma di re- “indietro” e cor “cuore”, cioè un richiamare nel cuore.
Ricordare non è una parola per il passato, è una parola per il presente, per il qui e ora, per domani.
È un’azione che continua, ricordare.
Anche quando le parole non esistono, per dire chi si è persə. Anche quando non abbiamo le parole per nominare certi stati emotivi, come racconta
in questo bel TEDx Policoro, che vi incollo qui sotto.Essere un nome
Ricordare è nominare e nominare è ricordare. Ricordare una persona che abbiamo perso, è ogni volta che diciamo il suo nome.
Perché il nome è quella cosa che ci portiamo addosso da quando nasciamo.
Dice Alec Trenta all’inizio del suo bellissimo graphic novel Barba. Storia di come sono nato due volte:
Il nome mi rafforza. È come se mi rendesse valido per stare al mondo. Poi svanisce perché diventa parte di tutti i suoni della terra e non ci penso più.
Stiamo coi nostri nomi insieme a tutti gli altri, finché qualcunə non lo pronuncia, il nostro nome. E se lo pronuncia male, lo distorce, lo scrive sbagliando qualcosa, allora ci sentiamo incompletə.
Online e tutte le volte che devo scriverlo, il mio nome compare così: Andrea M. Alesci, con quella M puntata che rappresenta il mio secondo nome, quello che da piccolo mi vergognavo un po’ a nominare e cercavo di nascondere.
Ma noi cambiamo, come cambia continuamente la lingua.
Adesso, quando leggo il mio nome e cognome e quando devo firmare, sento che ho bisogno di quel pezzettino in più, perché senza sarebbe come perdere qualcosa.
Quella M. è l’abbreviazione di Mariano, che è il nome del mio nonno paterno; Andrea invece è il nome del mio nonno materno. Sapere di averli entrambi è come portare sempre con me i miei due nonni. È ricordarli.
P.S.
Oggi una puntata di Linguetta un po’ più personale del solito, ma anche scrivere è una forma di ricordo. Forse una delle più potenti che possediamo.
P.P.S.
Ah, se ci sentiamo, scriviamo, parliamo, chiamatemi pure col mio primo nome soltanto, Andrea 😄.
🖊️ Inversi
Oggi pochi versi dalla raccolta di poesie Il mio letto è una nave di Robert Louis Stevenson (traduzione di Roberto Mussapi), in cui lo scrittore inglese sa ricongiungere la memoria dei grandi con quella dei piccoli.
A mia madre
Anche tu, mamma, leggi i miei versi
perché quei giorni non vadano persi.
Così forse potrai ancora udire
i piccoli piedi andare e venire.
📚 Tuffandosi
Oggi un doppio suggerimento che attinge dalla letteratura per bambinə e ragazzə. Il primo è I lucci della via lago di Giuseppe Festa, che ci porta sulla sponda bergamasca del lago d’Iseo per raccontare la storia di un gruppo di amici e amiche nell’estate del 1982, quando i sogni dell’Italia s’intrecciano al percorso della nazionale maschile di calcio ai mondiali di Spagna e quando quei preadolescenti hanno a che fare con la perdita di uno di loro.
Il secondo consiglio invece è per l’albo illustrato Da grande sarò una foca di Nikolaus Heidelbach (traduzione di Valentina Vignoli), che si porta dentro la storia di due genitori e un figlio, della leggenda delle selkie, di qualcosa che farà cambiare direzione a queste vite. Soprattutto contiene immagini vivide che alternano la realtà a un altrove misterioso, a cui bambine e bambini accedono più facilmente dei grandi.
🎥 Spietate identità
Ho visto una serie animata spettacolare, che ha fatto fare al mio cervello un sacco di capriole dentro altre opere: si chiama Blue Eye Samurai e ci porta nel Giappone del XVII secolo, cioè nell’ultimo periodo dello shogunato. Protagonista è Mizu, che ha gli occhi azzurri ed è nata dalla violenza sessuale di uno dei quattro uomini europei arrivati all’epoca in Giappone. E che è cresciuta come samurai per avere la sua vendetta. Un sorprendente equilibrio di estetica, regia, scrittura, musica, con cui Amber Noizumi e Michael Green hanno costruito una cosa che sta sul bordo di tante cose, senza essere nessuna di esse. Si vede su Netflix.
📰 Oscuri divagamenti
Una doppietta di pezzi dalla rivista il Tascabile:
Bartleby, o l’archeologia della morte in cui il traduttore Enrico Terrinoni ragiona attorno all’espressione I would prefer not to (Preferirei di no) per capire dove ci possono portare le diverse traduzioni e le interpretazioni date nel tempo dell’opera di Herman Melville. Cioè, anche, da nessuna parte.
La lingua ignota di Daniela Pes, perché si parla di paesaggi linguistici artificiali, come quelli che stanno nel Signore degli anelli ― in particolare nella scena del funerale di Théodred che ho citato, quando Éowyn e Gandalf parlano in Rohirric. Nel pezzo è il progetto musicale e linguistico della cantante gallurese a riaffermare significati tutti nuovi. Come ricordi che non sapevamo di avere.
🎧 Ritrovarsi
Il libro di Alec Trenta che ho citato nella puntata me l’ha fatto conoscere la sociolinguista Vera Gheno nell’episodio Quello che non sappiamo dei corpi transgender del suo podcast Amare parole. Ve lo linko qui sotto, perché come al solito le sue parole sanno registrare puntualmente ogni cambiamento che avviene dentro la società, quindi nella lingua.
Mi sa che è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Cerchiamo sempre di ricordare e nominare, in fondo basta usare il 💖, lo stesso cuore che sta qui sotto e che potete pigiare per dirmi se v’è piaciuta la puntata.
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Com'è confortante questa prospettiva. In questo periodo mi trovo spesso a pensare alla morte e a come ne affronterò una in particolare, che si va profilando sempre più vicina. Un'ombra costante, sempre lì, che io la guardi in faccia o no.
Mi domando come la affronterò perché mi illudo (invano) di arrivarci più "preparata", se mai lo si possa essere davanti a una cosa tanto radicale che strappa via un pezzo di te. L'idea che invece qualcosa si aggiunge è commovente.
Molti abbracci per questa puntata, moltissimi