Leggersi
Linguetta #58 / La lettura è un'attività antropologica, aiuta a capirsi e capire le altre persone. Come accade con qualsiasi forma di comunicazione che sperimentiamo.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Una decina di giorni fa ho seguito allo Studio Andromeda di Trento un corso di lettura ad alta voce di albi illustrati, tenuto dall’attore e lettore professionista Alfonso Cuccurullo.
Ci sono cose che la lettura ad alta voce restituisce su noi stessə, cose che non immaginiamo, e continua a farlo lettura dopo lettura. Ed è quello che succede anche quando ci misuriamo con una lettura solitaria, “a voce dentro”, soltanto che in questo caso le parole assumono un tono differente. Però, sia leggendo fuori sia leggendo dentro si mette in atto un processo che Marcel Proust spiega bene nel Tempo ritrovato:
Ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di sé stesso. L’opera dello scrittore non è che una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in sé stesso. Il riconoscersi del lettore in ciò che il libro dice è la prova della verità di questo.
Proprio questo pensiero di Proust mi consente di restringere il campo, perché a parlare di lettura ci vorrebbe una newsletter a parte (chissà, magari un giorno).
Leggere consente di capirsi meglio, ed è una cosa che possiamo trasportare anche al di fuori delle storie, nella vita di tutti i giorni, quando dobbiamo comunicare con qualcunə, che sia al di là del vetro di uno sportello, oltre la chat di un servizio clienti, in un’interazione in negozio, attraverso il microtesto di un sito web, al telefono di un ufficio.
La lettura ci insegna che le parole servono a capirsi ed essere capitə.
Essere compresə, accettatə, guardatə oltre l’impressione, che smaschera sempre il nostro pregiudizio. Ecco, cercare di non essere giudicatə: la lingua ci consente di farlo, usando le parole con le intenzioni giuste.
Una parola, tanti usi
Ogni parola possiede molteplici significati, però noi possiamo scegliere quali usare a seconda del contesto.
Mi ci ha fatto pensare la parola incidente: all’interno di un albo illustrato, di una storia, è l’incidente narrativo che mette in moto, che sovverte, una specie di increspatura gravitazionale nel flusso del racconto.
Alla parola incidente di solito diamo un’accezione negativa, pensiamo subito a qualcosa che ci ostacola il cammino, un imprevisto che rischia di mettere tutto a repentaglio; eppure l’imprevisto (anch’esso visto in negativo) è qualcosa di aperto, qualcosa che non avevamo previsto ci potesse accadere. E può benissimo diventare una cosa meravigliosa.
Proprio come quando si legge a qualcunə: non sai chi hai lì davanti, non sai che cosa può succedere — strilli, gente che si rotola, pianti improvvisi, qualcuno che si soffia il naso, un martello pneumatico che disintegra la strada, pioggia torrenziale che catalizza l’attenzione, luce che va via, la tua pancia che borbotta — non sai se funzionerà quello che hai preparato, non sai se tu potrai funzionare come volevi. Allora appronti manovre di correzione, scruti, aggiusti, leggi segnali, capisci, correggi.
La lettura ad alta voce è fatta di ritmi narrativi, di quadri emotivi che determinano cambiamenti, soprattutto è relazione. La sua è un’architettura di parole, e quando abbiamo a che fare con la lingua, sappiamo che abbiamo a che fare con le persone e con le connessioni che creiamo.
È come se ci fosse un invisibile filo di tensione tra chi parla e chi ascolta, tra chi manda e chi riceve un messaggio.
Una comunicazione funziona nei tra.
Perché riesca bene dobbiamo essere trasparenti dal punto di vista emotivo, stesso presupposto perché una lettura ad alta voce riesca naturale. E dobbiamo pesare le parole, sapendo che — come dicevo nella Linguetta n. 54, riportando le parole di Vera Gheno —:
Non esistono parole innocenti, esiste il modo in cui usiamo le parole.
Come per incidente, anche la parola fortuna ha assunto nel tempo un’accezione precisa, in questo caso positiva, anche se l’etimologia dice che indica la sorte, il caso, la possibilità bifronte di un testa o croce.
Ed è lo stesso con abilità, che — dice la Treccani — è “la capacità di svolgere una particolare forma di attività, intesa come frutto della volontà”. Eppure di essa abbiamo assimilato un connotato che gravita attorno al concetto di normalità, di un ‘essere abile’ contro un ‘essere disabile’. Quello che possiamo fare come sempre è usare bene le parole, senza creare opposizioni nette, soprattutto in questo caso usando entrambi i termini come aggettivi, cioè caratteristiche transitorie di una persona.
Ecco, ricordarci sempre che chiunque ci troviamo di fronte è una persona, composta da tante sfaccettature, caratteristiche e capacità.
Ma in quanto persona inserita in una società, è soprattutto qualcunə che interagisce con altre persone, e che non ha attributi fisici, sensoriali, mentali disabilitanti ma che vive una condizione diversa, legata a una serie di fattori che non dipendono intrinsecamente da lui o lei. A spiegarlo bene è lo scrittore e divulgatore Fabrizio Acanfora in questo pezzo sul suo sito. Ne cito un estratto, ma vi consiglio di prendervi il tempo per leggerlo tutto:
Come ho già scritto riguardo all’idea di abilità, alla quale la dis-abilità si contrappone nella diffusa ma limitante visione comparativa dell’esperienza umana, lo stato di eccezione non è tanto la disabilità che prima o poi, con buona probabilità, sperimenteremo tuttǝ. A essere estremamente fragile e sicuramente temporanea è proprio quella condizione che ci ostiniamo a definire abilità.
[…]
La disabilità dev’essere affrancata da una visione che la considera esclusivamente da un punto di vista funzionale, riconoscendole una propria identità sociale nell’ambito di quella che è la diversità dell’espressione umana. E questo passaggio non può essere realizzato se prima non depuriamo il linguaggio comune da quella terminologia patologizzante che etichetta chiunque abbia caratteristiche psicofisiche e sensoriali differenti dalla media come difettosǝ.
Trovare la voce giusta per definire una persona aiuta a respingere l’idea di una società che disabilita chi non raggiunge i criteri di ammissione alla categoria maggioritaria.
Parole attiviste
Dunque, le parole sono congegni che attivano: un pensiero, una struttura mentale, una relazione, una comunicazione.
Capirle e riuscire anche a leggerne gli strati che le hanno plasmate nel corso del tempo ci aiuta a vedere le cose più in profondità, a prenderci il tempo per pensare ed entrare in sintonia con l’altrə.
Che è quello che fa l’etimologia: scandagliare, scavare e restituire alla luce come un archeologə tra le fessure dei millenni. Ci aiuta a vedere i percorsi delle parole, che a volte prendono strade impreviste, anche fatte di errori. Ma che aiutano a capire dove s’è sbagliato e come rimettersi in piedi.
Lo racconta bene Margherita nella sua newsletter La Burrasca, parlando della parola peccato; potete sentirla anche qui sotto, ospite di una puntata del podcast Mirabilia (dal minuto 0 fino a 7’58”):
Ne tiro fuori un estratto:
Peccato viene da peccare, cioè “violare un patto col divino”. La radice verbale protoindoeuropea -ped, che è la stessa da cui deriva la parola piede, che contiene in sé sia l’accezione di camminare sia di inciampare. Allora peccare è camminare fuori dal seminato, camminare inciampando.
Vedere il percorso prestabilito e condiviso, quindi cercare un’altra strada. In origine la parola peccatum non ha un’accezione religiosa, ma essendo noi intrisi di cristianesimo, la traduciamo dandogli un senso di ‘sbagliare’.
Le parole contengono al proprio interno un significato e il proprio opposto. Lo spiega bene sempre Margherita:
Quando noi andiamo a rintracciare l’origine di una parola in una radice protoindoeuropea, spesso succede che delle parole che per noi sono due concetti antitetici, in realtà abbiano la stessa radice: un po’ perché la tesi e l’antitesi fanno parte dello stesso universo, e le radici da cui derivano le parole sono come degli universi che si riferiscono al mondo di riferimento di quella parola.
Nel caso di peccatum è una metafora bellissima, perché diventa un po’ come se camminare e inciampare fossero intrinsecamente la stessa cosa, lo stesso tipo di azione: l’errore diventa compreso nell’agire, come se non si potesse agire senza commettere degli errori ma contemporaneamente non si potesse commettere degli errori senza agire, senza andare avanti. L’errore è parte del percorso, del fare un viaggio, e non si può inciampare senza rialzarsi e camminare.
Un’unica radice diventa un’unica azione, come se i nostri piedi contenessero già tutti i viaggi e le cadute che faremo.
Sta tutto nel viaggio che le parole fanno per andare incontro alle altre persone, come nella lettura. E come nella lettura, composta da diversi ritmi narrativi (naturale, veloce, lento), è un altro il ritmo che li controlla tutti quanti: il ritmo pausa, il silenzio fra le parole.
Si tratta di quel ritmo che nella lettura crea l’aspettativa, è il momento condiviso della lettura, quello di massima relazione, il momento in cui stiamo per dire cose importanti, come quando ci fermiamo prima di dire “ti amo”.
Il ritmo pausa è l’ignoto, il momento di sospensione in cui stiamo per conoscere noi stessə e chi ci ascolta. Con la pausa creiamo la metamorfosi emotiva, e leggiamo le persone.
Come dice Alfonso Cuccurullo:
La lettura è un’attività antropologica.
📚 Letture anteriori
C’è un bel libriccino dello scrittore Antonio Ferrara che racconta come innamorarsi delle parole, come giocarci e usarle al meglio: è organizzato in fulminanti paginette che girano intorno a diversi temi e s’intitola Leggero leggerò. Guida impertinente alla lettura e all’amore per i libri.
Avendo parlato di albi illustrati, il consiglio che vi do è quello di immergervi in quelle storie cartonate che crediamo siano riservate solo a bambini e bambine, ma che spesso hanno dentro storie che tirano dentro i grandi come un amico che vi offre una birretta al pub. E allora vado con due titoli:
Incontri disincontri di Jimmy Liao, una storia di cui vorrete sapere come va a finire tra la ragazza che ogni volta che esce di casa gira sempre a sinistra e il ragazzo che ogni volta che esce di casa gira sempre a destra. Finché un giorno…
Una zuppa di sasso di Anaïs Vaugelade, che è uno dei miei albi preferiti: perché c’è dentro l’archetipo delle nostre paure, il lupo, e perché succede una cosa inaspettata, imprevista come un sasso che sobbolle sul fuoco.
Oggi pieno di letture, e visto che abbiamo parlato di etimologie, vado con un consiglio che ci gioca con le etimologie: Etimologiario di Maria Sebregondi, che se volete trovate anche letto in alcune parti da Paolo Nori nel podcast Paolo Nori legge. Vi linko l’episodio.
📰 Cose belle lette in giro
Su Doppiozero c’è un bel pezzo dell’insegnante Giorgia Antonelli che parla di libri da consigliare agli adolescenti, ma soprattutto di come farli vivere questi libri, “che se la letteratura si scolla dalla vita, diventa solo un vezzo snob”. L’articolo s’intitola Prof, mi ridice il nome di quel libro?
Si racconta di letteratura, insetti e crisi climatica nel pezzo scritto sul Tascabile La vita stercoraria, che è un estratto dell’ebook Fare i versi. Poesia, infanzia, apocalisse pubblicato da Nicolò Porcelluzzi per la collana Quanti di Einaudi. Un bel modo per allargare la vista.
🎥 Il potere della parola
Non ho resistito: alla fine ho guardato Gli anelli del potere e, certo che non è Il signore degli anelli, però vi ci butta con grande trasporto nella Terra di mezzo, e voi siete lì con il sorriso stampato in faccia a sentire gli strani nomi di elfi, nani e pelopiedi. È stato un piacere tornare nei luoghi immaginati da J.R.R. Tolkien, stavolta nella Seconda Era, quando Morgoth era stato sconfitto e Sauron era ancora un nome misterioso. Otto puntate, su Prime Video.
Mi sa che è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Ah, che leggiamo ad alta voce oppure dentro i nostri crani, teniamo a mente che leggere è una pratica ingegneristica: costruisce ponti. Come quando comunichiamo. E per farlo serve soprattutto il cuore, lo stesso che potete mettere pigiando sul simbolo del 💖 che sta qui in fondo.
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Stavo già per commentare il concetto di lettura antropologica e la bellezza della lettura ad alta voce e poi ho visto la citazione della burrasca 😁🥰 grazie mille! È bello "vedersi" in questa newsletter stupenda.
Sulla lettura ad alta voce la prima cosa che mi viene in mente è che ci sono dei libri interi che non ho capito finché non li ho letti ad alta voce, soprattutto testi studiati a scuola, scritti prima dell'800 quando prende piede la lettura in silenzio, privata. Mi dà da pensare: la lettura è un fatto antropologico, e la scrittura la segue, non il contrario, perché chi scrive lo fa sapendo come legge il lettore.