Legami nel tempo
Linguetta #55 / Le parole che usiamo per comunicare servono a creare relazioni, specie con chi è distante da noi. Il segreto sta nel costruire il dialogo con pazienza e cura.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Poco tempo fa ho sentito uno dei miei nipotini dire questa cosa qui:
Se io sono una volpe e tu sei una volpe, ci capiamo. Ma se io sono una volpe e tu sei un umano, non riusciamo a capirci perché non parliamo la stessa lingua.
Oppure se io sono un’ape e tu sei un’ape, magari mi muovo così [volteggiando su una gamba e mettendo le braccia in una certa posa] che vuol dire “Attenzione, umano in arrivo!” oppure sbatto le ali e faccio così [cambia posizione] per dire “Andiamo in cerca di cibo!”; ma se io sono un’ape e tu sei un umano, devo stare attenta a non pungerti, altrimenti muoio.
Le api sono importanti, non dobbiamo ucciderle! Più cose mangiamo, tagliamo, uccidiamo — soprattutto pesci — più umani muoiono. Gli umani sono stupidi!
Quelli che non vogliono che le persone arrivino, lo sanno che poi quelle persone muoiono in mare? Ma perché non vogliono che arrivino?
Ma non capiscono che bisogna collaborare?!?
Spesso nei discorsi di bambini e bambine si accalcano pensieri disparati come oggetti in un vortice, e poi il vortice non lo sai dove ti porta. Di sicuro tengono dentro la multiformità del pensiero.
In questo caso le parole-centrifuga di un settenne hanno fatto una sintesi perfetta di quello che dall’inizio di Linguetta racconto in diversi modi:
Per fare le cose dobbiamo capirci, e dobbiamo collaborare.
Se c’è una cosa che le parole ci possono insegnare è quel lavorare insieme, che è proprio di qualsiasi lingua umana e qualsiasi linguaggio di comunicazione: condividere segni e simboli che determinano un significato e non un altro.
Una parola da sola non serve a niente, non dice nulla se non è inserita all’interno di un sistema composto di altre parole. E soprattutto rimane inerte come i materiali di scarto dell’edilizia, se non è detta da almeno due parlanti che condividono un codice, un modo di organizzare quelle parole. Una lingua, insomma.
Le parole sono relazioni
Tanti anni fa un amico mi disse che s’era tatuato sul braccio una frase, in giapponese:
Le cose sono relazioni fra le cose.
Mi ha sempre colpito, e ogni tanto mi ronza in testa come una mosca che non vuole andarsene mentre scrivi qualcosa al computer. Solo con molto più piacere, della mosca.
Una frase semplice, che usa poche parole piane però dà da pensare parecchio; una di quelle frasi che mi fa sempre partire per divagazioni impreviste e imprevedibili, una specie di baule che quando lo apri non ci trovi un fondo, ma cose che escono come dalla borsa di Mary Poppins.
Questo essere in relazione continua e continuativa fra le cose vale anche per ogni organismo vivente, comprese le parole.
La lingua vive di relazioni, e ravanando dentro quel baule m’è venuto in mente il Saggio sul dono dell’antropologo Marcel Mauss, in cui l’atto del donare è importante proprio perché serve a instaurare relazioni. Il processo del dono però funziona se si realizza il meccanismo dare-ricevere-restituire, cioè se chi riceve un dono, nel tempo può contraccambiare e così riequilibrare il suo debito.
Il saggio è molto complesso e parte dall’analisi di questo meccanismo nelle società indigene del Pacifico, ma quello che conta quando comunichiamo è il concetto di valore delle relazioni, così come racconta l’antropologo Marco Aime, nell’introduzione al volume di Mauss, parlando di alcune società tradizionali africane:
Se un individuo ha bisogno di un aiuto, sotto forma di manodopera o di beni di consumo, potrà accedere alle risorse esistenti nel gruppo di persone che costituiscono il suo circuito di scambio […]
Si tratta di un banale baratto, si potrebbe obiettare. Invece no. La differenza sta proprio nell’attivazione del circuito: in questo caso, tra gli individui che si scambiano beni e servizi, si consolida sempre di più un legame di solidarietà che rafforza il circuito stesso. In pratica il bene viene rimpiazzato dal legame.
Estraiamo lo schema linguistico da questo paragone e portiamolo ad esempio all’interno di una dinamica nella pubblica amministrazione:
Nell’organizzazione interna → una comunicazione coesa all’interno di un ufficio comunale è il presupposto perché funzioni anche la comunicazione tra un ufficio e l’altro; e quando un gruppo di lavoro si mette in comunicazione con un altro — magari trasmettendo una competenza, un’informazione, una procedura —, il processo del dono si attiva portando a una cooperazione che si compie e si rinsalda nel tempo.
Nell’organizzazione esterna→ parole dette bene da un ufficio pubblico a cittadini e cittadine sono come un dono, che poi ritorna sotto forma di apprezzamento, e magari chi le ha ricevute (le parole) diventa pure ambasciatore o ambasciatrice di quella pubblica amministrazione (pensa un po’).
Attraverso lo scambio di doni si rafforzano e intensificano le relazioni che uniscono gli individui, e perciò si crea la società.
Il tempo delle mele
Ogni relazione, come ogni cosa che cresce e si sviluppa ha bisogno di quella cosa lì in cui siamo immersə senza rendercene conto: il tempo.
E come nel film che lanciò Sophie Marceau, serve tempo perché le cose cambino, ma a volte non ci accorgiamo che le cose sono già cambiate molto rispetto a prima. Lo spiega bene Rebecca Solnit in un bellissimo pezzo che sta sul numero 1479 di Internazionale. Alcuni stralci:
Ci vuole tempo per vedere un cambiamento, ma la sua comprensione è essenziale per capire la politica e la cultura. Una visione a breve termine genera incomprensione ed è inefficace. Gli eventi, come gli esseri viventi, hanno genealogie ed evoluzioni […]
Tra le cose che scompaiono nella visione a breve termine c’è il fatto che quasi tutti i cambiamenti sono graduali e che anche una vittoria di solito è preceduta da tappe intermedie […]
I grandi cambiamenti della nostra epoca su temi come il genere, l’ambiente, il razzismo e altri sono stati graduali e in gran parte culturali, anche se poi hanno prodotto risultati concreti come leggi, riforme politiche e finanziarie. La verità è che tutto ha una storia e niente è completamente nuovo.
Le cose cambiano, anche se a volte possono piombargli addosso altre cose che le ostacolano, le rallentano o che tentano di cancellarle. Sempre Solnit dice che una sua amica una volta le ha detto: “Siamo tutti perdenti finché non vinciamo”.
Ma la frase dell’articolo che mi ha colpito di più è quella che Solnit racconta d’aver letto sulla maglietta di un altro suo amico, il poeta e arborista Joe Lamb:
Per un albero settant’anni sono pochi.
Ecco, usiamo la dimensione del tempo lungo per valutare le cose, perché questo è un tempo che ci aiuta a non essere intolleranti, a capire le complessità, ad avere la pazienza di interrogare le altre persone, a sospendere i giudizi, a esercitare la capacità di usare parole che cercano di trovare soluzioni, di costruire scenari utili.
Darsi il tempo di vedere il tempo.
È una cosa che ho ritrovato anche leggendo il bel saggio del redattore freelance Danilo Zagaria dal titolo In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene, quando parla della raccolta differenziata come un processo di lungo corso che ci ha aiutato a pensare a quale bidone dobbiamo aprire per i diversi tipi di rifiuto, mentre una volta buttavamo tutto nello stesso sacco nero.
Esattamente quello che fanno le parole: agiscono dentro di noi nel corso del tempo. Basta non avere la fretta di arrivare alle conclusioni e magari tirarle pure sbagliate, le conclusioni, come quando confondiamo meteo con clima — per un ripassino rimando all’ultima puntata del podcast Ci vuole una scienza.
Riparare i viventi
Usare le parole per comprendersi e per comprendere le altre persone, soprattutto nelle situazioni in cui si rischia di fare muro contro muro, come in Italia dopo il 25 settembre.
Quando ci troviamo in situazioni di attrito, quello che serve fare è riparare, ricomporre, ricostruire. Lo diceva bene Nicolas Lozito nell’ultima puntata del Colore verde:
Nei prossimi cinque anni dobbiamo fare tutto il nostro meglio per diventare una specie rigenerativa. Riparare invece che danneggiare.
Sarà compito anche dei nostri nuovi parlamentari, e avremo modo di chiederglielo anche dopo il voto, presidiandoli, insistendo, facendolo capire a chi non lo vuole capire.
Gli strumenti migliori che abbiamo sono sempre loro, le parole.
Servono a ridurre le distanze, a guidare, a difendere, a spiegare. Ma più di tutto servono a farci domande, come diceva Susanna Tamaro nel suo libro Ogni parola è un seme:
La specificità dell’essere umano non è forse quella di interrogarsi? E la prima domanda, quella che poi pone il fondamento di tutte le altre, non è quella sulla propria fragilità?
Ecco, partire dalla fragilità di ognunə di noi aiuta a capire che un atto normativo, una scelta politica, un documento legale, un’istruzione tecnica, un qualsiasi dispositivo linguistico che usiamo tiene insieme persone diverse, ciascuna fragile a sua modo (anche quando tenta di nasconderlo). Allora l’azione dovrà essere collaborativa.
E proprio nei giorni scorsi molti divulgatori e divulgatrici su Instagram hanno iniziato a rendere ancora più evidente questa loro volontà di uscire dalla bolla e cercare di parlare anche a chi la pensa diversamente. Come ha fatto ad esempio l’ingegnera ambientale Teresa Agovino.
Andare incontro con le parole, come suggeriva lunedì il giornalista Alessandro Sahebi:
Forse siamo noi che dobbiamo smettere di pretendere che “loro” capiscano e porci il problema di come reagire.
E reagire non è limitarsi a difendere i nostri diritti. Reagire è ascoltare quelle che sono le parole degli altri e affrontare la sfida più importante: ricostruire un’alternativa politica ampia. Ricostruire un’ideologia, ricostruire l’utopia di una società più giusta. Ma per tutte e tutti.
Sui nostri diritti? Non cederemo di un centimetro. Ma abbiamo il dovere di chiederci come arrivare al cuore di chi sta lontano da noi, di prenderci a cuore i diritti degli altri.
Le parole possiamo usarle per creare relazioni e poi per coltivarle quelle relazioni, possiamo pigliarci il tempo di scegliere bene le parole, di prendere una posizione e di muoverci verso le altre persone (specie quelle distanti da noi) così come si muove in continuazione la lingua.
Radicarci come fanno le piante ma tenere vivo quel brusio sotterraneo fatto di scambi tra radici e ife fungine. Un dialogo ininterrotto che la scienziata Suzanne Simard ha chiamato Wood Wide Web.
In una parola: cooperazione.
Cioè trovare le parole giuste per parlarsi.
La chiusura la lascio a un post Facebook di uno dei miei numi tutelari, che credo ormai conosciate bene amici e amiche di Linguetta: la sociolinguista Vera Gheno.
Lei, le parole giuste riesce sempre a trovarle.
📚 Misurare il futuro
Visto che sono partito da una riflessione bambina, il consiglio di lettura è per un libro scritto da Francesco Tonucci (con un prologo di Norberto Bobbio): s’intitola La città dei bambini e racconta che cos’è il progetto della Città delle bambine e dei bambini che dal 1992 è attivo a Fano, cioè un modo perché anche i più piccoli possano incidere sulla politica di gestione di un territorio, del quale fanno parte ma sul quale di solito non hanno diritto di parola.
E come secondo consiglio un graphic novel che costituì l’esordio di Martoz (all’anagrafe Alessandro Martorelli): si tratta di Remi Tot in Stunt, che online non si trova più, ma per fortuna ci sono quelle cose fantastiche che si chiamano biblioteche. È la storia di un genio della matematica che svolge segretamente l’attività di “stuntman della realtà” quotidiana, funambolo dell’imprevisto che si sostituisce a persone coinvolte in immani catastrofi e sopravvive al posto loro. Storia folle, disegni di un dinamismo pazzesco e una riflessione che gioca coi movimenti artistici e la matematica mentre indaga insieme a noi i confini del possibile.
🎥 Interni italiani
Probabilmente è il film con più remake della storia: diciotto! Ed è un film italiano: Perfetti sconosciuti. Se ancora non l’avete visto, wow: potete ancora vivere per la prima volta la suspense di una storia scritta coi fiocchi da Paolo Genovese, capace di entrare con spietata delicatezza dentro la frangibilità umana. Sta su Netflix.
L’altro suggerimento invece lo trovate (per ora) solo al cinema, ed è l’ultimo film di Emanuele Crialese: L’immensità. Era tanto tempo che non vedevo un film così studiato, nei dettagli e nelle inquadrature, forse pure troppo. Ma Crialese è uno dei miei registi preferiti, gli si perdona anche quel tocco di maniera in più, perché la storia lo riguarda da vicino e perché vale la pena allargare lo sguardo sedendosi in poltrona per quell’ora e 34 minuti di fluida intimità.
📰 Bonus track a pois rossi
Un pezzo di Giovanna Zoboli su Doppiozero in cui racconta come l’antropomorfismo della Pimpa di Altan riesca a leggere le connessioni fra tutte le creature viventi.
Un mondo in cui possono mettersi a parlare sveglie e campanili, locomotive e tostapane, frigoriferi e nuvole, poltrone, letti, lampade, divani, computer, navi, stivali da pioggia e barche, maglioni e sciarpe, libri e temporali, aquiloni e montagne, aeroplani, onde, case… E naturalmente parlano anche tutti gli animali, dai pinguini alle formiche, dagli ippopotami alle cicogne, dai millepiedi agli orsi.
Una storia, quella di Pimpa, in cui tutto si risveglia e prende vita.
Per oggi è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
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