Sul perdere
Linguetta #143 / Un confronto fra i participi passati 'perso' e 'perduto' è l'occasione per capire che perdere è un po' come cadere, e che ogni volta serve a imparare.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Le cose succedono, non ci avvisano mica che stanno per accadere, e che cambieranno i connotati di uno scenario o di un paesaggio interiore.
Càpitano e basta, come racconta benissimo la scena del quadro nella Leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore – tratto da quel geniale Novecento che Alessandro Baricco scrisse nel 1994.
Ci ho pensato l’altro giorno, lungo un sentiero, di ritorno da un’escursione in montagna con un amico, quando a un certo punto lui mi ha detto:
Secondo te perché si usa il verbo perdere ma con due participi passati diversi? Cioè, qual è la differenza tra l’uno e l’altro, tra perso e perduto?
Ecco, istintivamente mi è venuto da dire che la desinenza in -uto mi richiamava un senso di caduta, con quella U misteriosa che picchia contro la dentale T prima di fare precipitare le cose in una buia O.
Perdĭtus è il participio perfetto del verbo latino perdĕre, che come prima accezione ha perdere, inteso come mandare in rovina, procurare danno, rovinare qualcosa o qualcunə.
È un verbo che ha a che fare con il consumare, il corrompere, il portare verso deviazioni, soprattutto grazie al prefisso per, che sta per “al di là”.
Questo allontanamento dal cammino ci porta alla seconda accezione, che poi è quella più in uso: cessare di avere, non possedere più.
Un momento prima ce l’avevamo e poi, fraaam: caduto, perduto. E non lo troviamo più.
Sentieri di suoni
In italiano ci sono tante espressioni in cui usiamo l’una o l’altra forma del participio passato di perdere:
Mi sa che ho perso un’occasione.
Nooo, ho perso le chiavi.
Credo di essermi perso.
Mi sento persa.
Guardalo, è innamorato perso!
Ha completamente perso la bussola!
Ho perso i contatti con Luisa.
Ho perso il filo del discorso.
Ho perso il lavoro.
Te l’ho detto: è tempo perso!
Ha perso la pazienza.
Ho perso il sonno.
Hanno proprio perso la testa.
Abbiamo perso la partita.
Ecco: treno perduto.
Avete perduto la faccia.
Sono perdutə (spacciatə).
Un contributo a fondo perduto.
Perdiamo cose fisiche o figurate, e al di là dei solchi etimologici che si portano dietro, le due accezioni di perso e perduto dicono della ricchezza di una lingua, che può godere dei benefici sonori di entrambi.
C’è sempre un pizzico di magia nelle parole che usiamo, e spesso se assecondiamo il suono delle lettere possiamo percorrerne i sentieri nascosti dentro.
Ecco perché perduto mi sembra conservi un senso quasi di irrimediabilità (es. sono perduto), mentre perso dà un senso più legato allo smarrimento, al non riuscire (ancora) a trovarsi; lascia un barlume di speranza, una possibilità di riuscita, di recupero futuro.
Comunque, sono nuclei di significato che contengono visioni sul senso di chi siamo.
Racconti perdenti
Ogni volta che vado alla serata-gioco in una biblioteca vicino a dove abito, se si tratta di provare un gioco nuovo, io ci sto; e di solito, alla fine, perdo. Nel senso che quasi sempre arrivo ultimo.
Perdo e ho la sensazione di sentirmi perso, ma non perduto.
Possiamo perdere cose, perdere persone, possiamo perderci pure noi. Possiamo perdere un confronto, una partita, una sfida.
Eppure, a perdere si impara (anche) a vincere, anzi senza perdere sarebbe proprio impossibile capire come riuscire a farcela.
Perdere è una questione di osservazione, di notare le cose perché le volte successive si perda un po’ di meno.
Perdente è chi sta cercando di trovare la sua via, è una condizione provvisoria di indagine. Perché noi, come la lingua, siamo creature in costante ridefinizione,.
È un po’ come l’essere fallenti di cui parlò Vera Gheno in una puntata di Amare parole, o quello stato transitorio di cui scrissi io nella Linguetta n. 83.
Riesce a dirlo bene Daniela Brogi nel pezzo Forrest Gump: la vita come una scatola di cioccolatini scritto per Doppiozero, quando descrive la scena tra Forrest Gump e il tenente Dan, salvato da Forrest ma che ha perso le gambe:
Dan scoppia a piangere e abbandona la testa sul torace di Forrest, chiedendogli con un tono adesso sconfortato: «Capisci quello che sto dicendo, Gump? Non avrebbe dovuto succedere, non a me. Io avevo un destino. Ero il tenente Dan Taylor». Stacco di inquadratura e messa a fuoco frontale di Forrest, che dice: «Lei è ancora il Tenente Dan».
[…] «Lei è ancora il Tenente Dan»: la resistenza di un’identità sta nella capacità di costruire uno sguardo e un racconto buono che organizzi e contenga le proprie memorie – come fa Forrest raccontando via via la sua vita – e conservando i propri oggetti talismano.
Come Forrest Gump, si può riuscire a raccontare contenendo tutte le perdite che abbiamo incontrato.
Un concetto riassunto da una frase che non ricordo dove ho sentito, ma che dice così:
A volte si vince, a volte si impara.
Perdere – nel senso più largo di tutte le espressioni che contiene – è un modo per imparare a imparare, che poi è la dimensione della lingua, e della società dentro cui questa si modella.
P.S.
Oggi in anticipo rispetto all’ora delle zucche, e con il consueto aggiornamento sul numero di persone iscritte: ora siamo 3.057 dentro Linguetta, +35 rispetto a sette giorni fa.
Ah, se volete perdervi per benino, potete pigiare qui sotto.
🖊️ Inversi
Oggi pochi versi di Octavio Paz dalla raccolta Il fuoco di ogni giorno (traduzione di Ernesto Franco).
Alba
Sopra la sabbia
scrittura di uccelli:
memorie del vento.
📚 Tracce nascoste
Visto che ho parlato di suoni da sentire per rintracciare i segreti di ogni lettera, vi consiglio un bel libro che consente di esercitare la Fantastica di cui parlavano Novalis e Gianni Rodari: s’intitola Le parole magiche e l’ha scritto Donatella Bisutti, che esplora con testi brevi e un sacco di disegni le possibilità delle parole suggerite da forme e suoni che producono.
Il secondo consiglio è per Il libro delle parole altrimenti smarrite di Sabrina D’Alessandro, che come dice Stefano Bartezzaghi “rimette in vigore parole meravigliose, che ci paiono risuonare di una musica che non abbiamo mai sentito, splendere di colori che non abbiamo mai visto”. Un campionario di parole che esistono ma che a leggerle sembrano essere precipitate da un mondo lontanissimo fatto di rumori luccicanti.
🎥 Chi siamo?
Se avete una sala vicino, andateci per vedere Hit man (senza passare da alcun trailer). Richard Linklater è riuscito a creare una storia che ricorda al mondo che cos’è il piacere del cinema, facendo un film che è una commedia e un thriller e un saggio di filosofia in grado di mischiare realtà e finzione, di illudere, mentire, sorprendere. Con Glen Powell che è proprio bravo a sfilarsi e infilarsi ogni volta una maschera diversa per cercare come tuttə la definizione migliore di sé stesso.
🎧 Parole in tragitto
Il consiglio è per il podcast Libri Oltreconfine a cura di Teresa Franco, che ogni volta incontra una traduttrice o un traduttore per esplorare la storia di un libro straniero che chi traduce ha traghettato verso l’italiano. Vi linko la puntata in cui Silvia Pareschi parla del Vecchio e il mare di Ernest Hemingway.
📧 Perdersi all’origine
Mi è piaciuta molto l’ultima puntata Sarà lui, sarà lei: il gender reveal e i motivi per cui farne a meno di
, in cui ragiona attorno al momento in cui i genitori rivelano il genere di chi è appena natə ma ignorano che il genere può essere rivelato solo dalla persona in questione. E che quell’atto parla degli adulti che lo compiono piuttosto che del nascituro, ricordandoci soprattutto che il sesso è biologico, mentre il genere è un costrutto sociale.Mi sa che è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Osserviamo e impariamo a perdere, che in fondo basta usare il 💖, lo stesso cuore che sta qui sotto e che potete pigiare per dirmi se v’è piaciuta la puntata.
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Un bellissima riflessione. Mentre leggevo le indicazioni bibliografiche, che presto andrò ad approfondire, mi veniva in mente un bellissimo testo che sto leggendo, ‘Dizionario segreto d’infanzia’, di Arianna Giorgi Bonazzi, Topipittori, un racconto magico del potere del suono delle parole che si costruiscono nella mente di un bambino. E mi è sembrato interessante poterlo aggiungere. Grazie
Mi hai fatto venire in mente che ad esempio i francesi non ce l’hanno questa sfumatura perso/perduto, loro hanno “perdu” o piuttosto “manquè” (j’ai manquè le train). Ma sopratutto hanno il PAIN PERDU, il pane perduto, un dolce campagnolo che io adoro (pane secco bagnato nel latte, burro e zucchero tostato in padella).