Parole vegetali
Linguetta #22 / Molti cibi del supermercato si rivolgono a pubblici specifici, contribuendo a creare fazioni ed etichette. Mentre servirebbe un racconto inclusivo.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Sono dentro un supermercato, ci sono poche corsie, sugli scaffali i prodotti sono tutti di cartone, compostabile. Le uniche scritte sulle confezioni sono nome del prodotto e marca; sul retro di ogni confezione compaiono la provenienza della materia prima, dove e com’è stata lavorata, la percentuale andata a chi l’ha coltivata/allevata, l’impatto ecologico del prodotto, la tabella nutrizionale, il prezzo finale.
Luce. Mi sveglio.
Sarebbe un sogno avere le informazioni essenziali che ci servono per capire le cose, senza distorsioni né distrazioni, non è vero? Ma l’ideale di perfezione non è cosa umana, noi stiamo dentro i compromessi.
Lo spunto (direi lo spuntino 😁) per questa Linguetta me l’ha dato l’episodio 37 della newsletter di Riccardo Astolfi, che racconta storie legate al regenerative fooding - no, non è una parolaccia, riguarda il cibo visto in ottica rigenerativa.
La conoscenza sta nella rete
Mi ha fatto girare le rotelline sulla questione del linguaggio legato all’alimentazione, e sempre Astolfi mi ha anche anticipato con l’episodio 38 della newsletter, in cui ha invitato a parlare la linguista Beatrice Azzolina per cercare di trovare qualche soluzione al discorso sul cibo di origine vegetale, che spesso finisce col separarci in fazioni: onnivori, vegetariani, vegani (e tutte le sfumature che ci stanno nel mezzo).
Il bello della cosa è che una soluzione unica non esiste e che anzi riuscire a creare una discussione aperta può portare a tante soluzioni composite. Se avete qualche idea:
Come la lingua, anche noi funzioniamo quando ci connettiamo, quando attiviamo relazioni.
Io da due anni ho escluso dalla mia dieta carne di animali terrestri: niente più maiale, mucca, coniglio e compagnia bella; mangio però ogni settimana il pesce, scegliendo per quanto possibile quello proveniente da zone di pesca non intensive e prediligendo il pesce azzurro di piccola taglia (sgombro, alici, sardine, branzino). E magari una volta all’anno mi aggrego allo spiedo che organizza l’associazione di volontariato di cui faccio parte, giusto perché quello che conta lì è il momento di socialità.
Quindi che cosa sono? vegetariano? pescetariano? flexitariano? Nessuna delle tre, perché le etichette sono portatrici insane di esclusione. Nel momento in cui rinchiudiamo le persone dentro un’etichetta, stiamo riducendo la sua complessità umana a una sua caratteristica. Gli stiamo costruendo intorno una gabbia.
Quello che invece possiamo fare con le parole è l’esatto contrario: includere tutte le persone nel racconto, in questo caso nel racconto del cibo.
Trovare compromessi
Il compromesso è spesso visto come qualcosa di negativo, come una rinuncia ai propri ideali per “sporcarsi”, è qualcosa di zozzo, che riguarda la politica. Eppure l’etimologia di compromesso ci racconta un’altra storia: il compromesso è una promessa che si fa insieme, vuol dire riuscire ad accordarsi pur provenendo da posizioni differenti.
Compromettersi è esporsi, cercare una sintonia per un progetto. Compromettersi è un atto politico che serve a capire le cose, e a cambiarle. A trovare soluzioni.
Lo strumento di mediazione che ci aiuta a fare compromessi è la lingua.
Trovando le parole giuste possiamo provare a raccontare il cibo (specie a base vegetale) nel modo più inclusivo possibile.
Ora, se buttiamo un occhio agli scaffali di un qualsiasi supermercato, troviamo spesso prodotti vegetariani/vegani con le famigerate scritte vegan, vegetariano, plant-based. Cioè, etichette.
Quello che invece dovrebbero fare quei prodotti è raccontare la storia che c’è dietro, rendersi appetibili all’occhio di chiunque, rendersi popolari. Un po’ come le canzoni di Ligabue: chiunque le conosce, anche senza esserne fan.
Mangiando più cibi a base vegetale (verdure, cereali, legumi) ho sperimentato la grande varietà con cui possono essere cucinati e la complessità dei gusti che dispiegano.
Riuscire a trovare le parole giuste per raccontarli è un’operazione educativa, nel senso che riesce a “tirare fuori” quella varietà che ci portiamo dentro: varietà di percezioni, varietà di identità, varietà di batteri (il nostro prezioso microbiota intestinale). Significa affinare. Ed è sempre una questione di lingua: che assapora e che racconta.
Una parola cambia la storia
Prendo in prestito l’esempio che fa Riccardo Astolfi nella sua newsletter:
Una ricerca della catena di fast food Panera negli US ha dimostrato che modificando il nome di un piatto da “Zuppa di fagioli neri vegetariana senza grassi” a “Zuppa di fagioli cubana” ha aumentano le vendite del 13%. Stesso piatto, stesso prezzo, stessi ingredienti. Storia diversa.
È bastato sostituire la parola vegetariana (escludente) con l’aggettivo cubana (includente) e togliere quel ‘senza grassi’ che spostava tutto nella triste categoria delle ‘cose che mancano’.
Prima avevamo uno scialbo messaggio mandato solo a una categoria di persone; con le correzioni invece abbiamo un messaggio che abbraccia l’intero pubblico dei consumatori, facendo leva sulla forza delle emozioni condivise, che parlano della terra (Cuba) da cui provengono quei fagioli e che portano con sé un intero immaginario di ricette, conoscenze, ricordi attivati nella testa di chi legge.
Si evita così il famoso ‘noi’ contro ‘loro’, che mette in opposizione i membri del mio gruppo di appartenenza e ‘gli altri’.
I princìpi di questa Linguetta “alimentare” sono trasferibili a tutti gli altri testi che devono parlare a un pubblico vasto ed eterogeneo, e riguardano una cosa semplice: parlare in modo chiaro per riuscire a raccontare bene un prodotto o un servizio.
Esserne consapevoli anche da consumatori in cammino tra le corsie di un supermercato può aiutarci a capire meglio i messaggi e a pretendere dalle aziende una comunicazione sempre più inclusiva.
Forse però lo dice meglio il padre della sposa nel Mio grasso grosso matrimonio greco:
📚 Cibi giusti, tanti gusti
Visto che oggi siamo entrati un po’ dentro il discorso del cibo sostenibile, vado con due consigli di lettura agili e agevoli. Il primo è Possiamo salvare il mondo, prima di cena del romanziere americano Jonathan Safran Foer: è un saggio, e l’eloquente sottotitolo è Perché il clima siamo noi. E visto che ci siamo, sempre di Safran Foer ci aggiungo pure Se niente importa. Perché mangiamo gli animali.
L’altro consiglio è invece Il destino del cibo. Così mangeremo per salvare il mondo. L’ha scritto la ricercatrice in Farmacologia, Agnese Codignola, ed è un’esplorazione delle possibilità alimentari del futuro, che però sono già presenti.
🎥 Lingua franca
C’è un pezzo in un film che dice bene quello che realmente raccontano alcuni prodotti, e fa parecchio ridere: ecco il link allo spezzone. Il film è Il primo dei bugiardi (il titolo originale è The invention of lying) con l’attore comico Ricky Gervais, unico uomo a poter dire bugie in un mondo in cui tutti dicono sempre e solo la verità. Lo trovate su Amazon Prime Video.
🔥 Cibi murari
Col bonus track di questa settimana percorro le vie dell’arte e vi suggerisco di dare un’occhiata alle opere di CIBO, uno street artist veronese i cui murales sono tutti a carattere alimentare. Non appena su un muro compaiono slogan di matrice fascista, CIBO (alias Pier Paolo Spinazzè) compare con le sue bombolette colorate e le ricopre con un bell’uovo, frutta, verdura, salsicciotti o una bella fetta di pizza 😋.
Noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Se la puntata vi è piaciuta, sapete che l’icona da pigiare sta qui sotto, anche se dalla settimana scorsa Substack obbliga chi vuole mettere il 💖 a lasciare la propria email. Piccolo attrito, ma se Linguetta v’è proprio garbata, è un ostacolo che si salta facilmente.