L'esattezza crea mondi
Linguetta #33 / Usare parole precise vuol dire pensare profondamente al loro significato, e fa tutta la differenza tra un testo curato e uno sciatto.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Nella puntata dello scorso 13 aprile di Morning (il podcast di punta del Post) Francesco Costa ha fatto una bella introduzione sull’uso metaforico delle parole, che spesso troviamo anche in titoli e sottotitoli dei giornali.
Esibisco alcuni esempi sparsi di metafora:
sentirsi arrugginiti, essere una volpe, colpire nel segno, la gamba del tavolo, la bocca del vulcano, una stella del cinema, motori che ruggiscono, toccare il cielo con un dito.
D’altra parte non potremmo quasi parlare senza metafore, funzioniamo secondo questo bellissimo meccanismo di traslazione linguistica.
Noi esseri umani siamo esseri analogici.
Eppure anche abusare di metafore e altre figure retoriche rende il nostro linguaggio sciatto, banale, poco preciso. Specie quando dobbiamo comunicare qualcosa in maniera limpida.
Riprendo l’esempio che fa Costa dentro Morning, quando dice che a chiunque sarà capitato di leggere, ascoltare o dire la frase: “Nella nostra epoca contemporanea siamo bombardatə dalle informazioni”.
Un’espressione che rende bene quel senso di essere accerchiati da informazioni che vogliono colpirci. Ma non basta, bisogna fare di più, bisogna dire di più. Così a quel participio passati viene aggiunto il deflagrante avverbio che finisce in -mente, e noi ci ritroviamo così:
letteralmente bombardatə.
Un’espressione che sta dalle parti di uno sbaragliamento nemico a Risiko! Una bomba! ̶ giusto per usare una metafora.
Sennonché quel letteralmente disinnesca l’espressione metaforica, trasformandola in qualcosa di reale, perché ci dice che quella cosa è da intendersi in senso ‘letterale’.
Ribadisce Francesco Costa:
[Questo è il] pezzo di un più ampio fenomeno per cui usiamo le parole senza pensare davvero al loro significato, come se avessimo davanti solo delle frasi preconfezionate da cui attingere.
Occhio all’avverbio
Un processo di accumulo simile accade con un altro avverbio: assolutamente.
Gli avverbi di modo che finiscono in -mente hanno sempre una buona alternativa, che spesso è quella di lasciarli cadere nel vuoto e farli sparire. Come farebbe Houdini, ma pure Silvano il mago di Milano.
A parte magie e illusioni varie, sembra che a una cosa con cui siamo in accordo o disaccordo non possiamo semplicemente dire sì o no. Dobbiamo per forza dire assolutamente sì o assolutamente no.
Succede come quando i telecronisti sportivi abusano degli aggettivi per descrivere un gesto atletico normale, così quando arriva davvero un gesto atletico eccezionale, ormai gli aggettivi più roboanti sono già stati usati e sviliti, svuotandoli così della loro brillantezza naturale.
Assolutamente serve a dare una grande, enorme, gigantesca enfasi a un sì. Serve per le occasioni più uniche che rare, perciò conserviamolo con cura in gola.
E ricacciamolo giù quando ci viene addirittura da usarlo in solitaria per sostituire un sì.
La cosa la spiega bene il sito web Una parola al giorno:
“Sei d’accordo con quanto dice Tizio?” “Assolutamente sì”. In questo caso, l’assolutamente è un’esagerazione gratuita: parole come sì e no sono già da sé nette, e accostarvi un avverbio del genere non apporta alcun significato ulteriore. Rende invece affermazioni e negazioni tronfie e rumorose.
“Sei stato tu a finire la marmellata?” “Assolutamente”. Questo caso è ancor peggiore del primo: assolutamente, in sé, è neutro. Non significa né sì né no. Usarlo da solo come risposta lascia nell’incertezza. Il che può essere un risultato voluto, ma il più delle volte non lo è. Questa pratica nasce dall’uso inglese di absolutely, che come interiezione ha un valore positivo; e il lignaggio dei doppiatori italiani, trovandosi a dover doppiare una parola così ingombrante, ha capitolato e l’ha riproposta pari pari.
Come dice la parola stessa, l’avverbio è una parte del discorso che sta accanto (ad) al verbo (verbum), ma anche all’aggettivo, e li determina.
Usarli con sobrietà e cautela significa prestare attenzione alle parole, vuol dire riconoscere il peso di ogni parola e valutarla con scrupolo.
Un’ultima riflessione la lascio all’esperta di scrittura efficace Luisa Carrada, che nel suo Il mestiere di scrivere dice:
Gli avverbi li usiamo moltissimo parlando: perché ci lasciano il tempo per pensare a cosa viene dopo. Ovviamente, assolutamente, generalmente, solitamente, realmente, estremamente, veramente ... raramente aggiungono significato, ma certamente ci danno respiro, impongono alla mente la pausa di cui ha bisogno, ci permettono di girare per qualche secondo intorno a un’idea che stiamo elaborando proprio mentre parliamo.
Sono tipiche “zeppe del parlato” che nel testo scritto possiamo spesso eliminare, sia perché non aggiungono contenuto, sia perché perché diluiscono la forza dei verbi o di intere frasi.
E una frase diluita è una frase poco efficace, poco esatta.
Le parole sono pietre
È il titolo di un saggio di Carlo Levi (quello di Cristo si è fermato a Eboli), una raccolta di tre viaggi fatti nelle nervature contadine della Sicilia tra 1951, 1952 e 1955. Lì le parole sono pietre che raccontano il disumano e l’umano che lo scrittore vide sui volti delle persone. La vergogna e i tentativi di riscatto.
Quel titolo è perfetto, e serve per dire dell’esattezza delle parole, la “resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione” di cui parlava Italo Calvino in uno dei suoi libri più luminosi, l’ultimo che pubblicò, quello che non ebbe il tempo di finire: Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio:
Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso.
Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto.
Le parole sono pietre, non sassi.
Perché scegliere le parole definisce le cose, perché il suono di una pietra, l’effetto di una pietra, non è lo stesso di un sasso.
Allora le parole sono suoni.
Suonano dentro chi le dice, suonano all’orecchio di chi le sente, risuonano tra la gente.
E le parole sono mani.
Come una stretta, un abbraccio, un gesto. Le parole fanno, agiscono, definiscono.
Le parole sono mattoni.
Servono a costruire, a rendere visibile, dare corpo, fare toccare quello che prima stava solo dentro la testa.
Le parole sono inviti.
Sono passepartout per costruire relazioni, descrivere emozioni, percepire situazioni. Sono strumenti per definire le realtà.
Le parole sono importanti.
Una parola non vale l’altra, ogni parola istituisce un mondo.
Le parole sono azioni.
Cercare le più precise, esatte, giuste marca il confine tra distruggere e riparare.
Le parole pesano. Come pietre.
📚 Pesi specifici
Ne ho citati alcuni di libri in questa Linguetta. Allora andiamo con un breve riassunto (e un’aggiunta):
Il mestiere di scrivere di Luisa Carrada, della quale aggiungo anche uno dei preziosi libretti sulla scrittura editi da Zanichelli: Struttura & Sintassi. Chiare e trascinanti, come l’acqua che scorre.
Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio di Italo Calvino.
Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia di Carlo Levi.
📺 Parole affilate
‘Sto giro due consigli seriali. Il primo doppiamente seriale, perché si tratta di una serie tv sulla genesi della figura del serial killer: s’intitola Mindhunter, è una serie ispirata alla storia vera di due agenti dell’FBI che negli anni ‘70 hanno iniziato a studiare e profilare per la prima volta gli assassini seriali. Ci sono due stagioni, le trovate su Netflix. È una serie tv in cui l’azione sta racchiusa tutta nelle parole, come spiegavo in una cosa che avevo scritto dopo aver visto la prima stagione (potete leggerla senza problemi, niente spoiler 😅).
Secondo consiglio di giornata è un’altra serie tv in cui le parole usate (o non usate) fanno tutta la differenza del mondo, perché protagonista è uno che parla tanto: un avvocato. Si chiama James “Jimmy” McGill, ma forse l’avrete già sentito nominare come Saul Goodman. Già, la serie tv che vi straconsiglio è Better Call Saul, lo spin-off della serie più bella di tutti i tempi: Breaking Bad. Entrambe stanno su Netflix, e con Better Call Saul siamo proprio adesso alla sesta e ultima stagione!
Noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
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