Il corpo delle parole
Linguetta #40 / Le parole fumose sono quelle che tolgono bellezza alla comunicazione, come le storture urbane e i comportamenti sciatti che rendono poco vivibile una città.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Lo scorso fine settimana sono stato ospite del festival Una marina di libri e ho potuto visitare per la prima volta Palermo. Che città, così bella e così piena di contraddizioni: trabocca dei segni di tutte le civiltà che l’hanno percorsa, eppure non c’è momento in cui ti chiedi come si è riusciti a renderla così difficile da abitare, specie per le persone fragili, per i bambini, per gli anziani, per chi non vede, per chi non può camminare.
Certo, tre giorni non bastano per capirla ma per intuirla forse sì. Averla girata a piedi — per un giorno pure insieme a un’amica che ci abita — mi ha aiutato a entrarci dentro, a respingere i pregiudizi sulle cose che non vanno (incuria, turismo divorante, traffico) per farmi vedere le cose belle che la fanno risplendere (i Quattro Canti, il teatro Massimo, il lungomare dalla Cala a Sant’Erasmo, la Chiesa dello Spasimo e un sacco di altri angoli sorprendenti).
Palermo è un deposito di strati, come la lingua.
Dentro la lingua che parliamo ci sono tanti linguaggi diversi, a seconda del contesto in cui ci troviamo a parlare. A volte quei linguaggi si lasciano corrompere dai gerghi e diventano fortezze inaccessibili fatte di tecnicismi, burocratese, inglesismi, legalese, medichese, come raccontavo nella Linguetta #12 parlando di plain language o nella Linguetta #33 sull’esattezza.
La lingua si corrompe quando trasformiamo il nostro modo di comunicare in qualcosa di sciatto, abitudinario, fumoso. È come se le parole svanissero, diventando fantasmi di sé stesse e perdendo la corporeità che le rende comprensibili.
Ecco, proprio come la città di Palermo che nasconde le sue possibilità di splendere dentro una pioviggine di cose storte; allo stesso modo la lingua si svilisce quando la infarciamo di parole inconsistenti, come tradizione, naturale, innovazione.
Questo concetto l’ha ripreso poche settimane fa anche Luisa Carrada in un pezzo di commento a un articolo dell’Economist in cui si diceva:
“La fumosità è nemica dell’accuratezza oltre che dell’utilità. Una parola come ‘sostenibilità’ è così sfuocata che viene utilizzata per qualificare praticamente tutto, da un’azienda che pensa saggiamente sul lungo termine fino alla fine del capitalismo.
Persino questo articolo può essere considerato sostenibile perché propone (ricicla) sempre le stesse idee. La mancanza di precisione è l’anticamera di protagonismo e greenwashing”.
Niente più fumo negli occhi
Ogni volta che cediamo alla pigrizia della parola di comodo, ogni volta che usiamo un’espressione gergale che esclude qualcuno dalla conversazione, stiamo affumicando la lingua e la nostra capacità di fare risuonare parole, frasi, messaggi, testi con precisione.
Quella precisione che rende la comprensione immediata, quindi utile.
Perché di questo si tratta: essere utili a chi ci legge/ascolta. Perché comunicare significa condividere qualcosa, vuol dire sapere che dall’altra parte dello schermo, oltre la pagina, al di là del vetro di uno sportello, al telefono ci sono persone, tutte diverse, ciascuna con un suo grado di conoscenze, esperienze, idee, preconcetti, forme mentali.
Allora comunicare vuol dire tenere una conversazione.
E una conversazione è sempre a due, non è un monologo in cui sentiamo soltanto la nostra di voce. In una conversazione ci buttiamo con tutto il corpo delle nostre parole, fatte di una sagoma e un contenuto da abbracciare.
Il tempo del si è sempre fatto così è finito, le persone non vogliono più sentire storielle fumose, le persone vogliono le risposte. E più di tutto vogliono sentire vicinanza, la stessa che può trasmetterci un corpo umano.
Proprio quella che ho potuto riscoprire pochi giorni fa a Palermo nel giardino di Villa Filippina: gesti e parole di nuovo dal vivo all’interno di un evento, storie raccontate e ascoltate, musica e strette di mano, sorrisi e confusioni di pensieri.
Insomma, persone fisiche.
Corpi.
Le parole pesano, vivono, sentono, definiscono, chiariscono, illuminano.
Sono corpi che comunicano, che mettono ordine nel caos. Come capita, per ora a tratti, alla città di Palermo.
Per cambiare basta trovare le parole giuste.
Come ricorda un poeta siciliano contemporaneo, che era presente a Una marina di libri. È di Marsala, si chiama Nino De Vita, e in una sua poesia dice così:
Eu sacciu comu èttanu ‘i palori.
Aiutàtimi cci ricu
a rricurdari, un omu
è fatto ri palori.Io so come gettano le parole.
Aiutatemi chiedo
a ricordare, un uomo
è fatto di parole.
📚 Poesia è fare, poesia è corpo
Il suggerimento è di fare un giro sul sito dell’editore messinese Mesogea, dove potete trovare i libri di Nino De Vita, poeta originario di Cutusìo, frazione di Marsala, e che da lì non s’è mai mosso ma è riuscito e riesce a gettare le sue parole in giro per il mondo.
Il secondo consiglio è un libro che ho preso proprio al festival di Palermo dal banchetto di Del Vecchio Editore, ma lo puntavo da un po’: è Teatro di cenere di Manuel Moyano, un libro di racconti brevissimi, cento micro-narrazioni che stanno ficcate dentro la realtà, finché una scintilla surreale non irrompe a cambiare tutto. Ogni pagina un racconto, per lasciare da parte anche la scusa del “non ho tempo per leggere” 😅.
📰 Di newsletter in newsletter
Nella Linguetta ho parlato di comunicazione come conversazione, proprio come fa il giornalista Valerio Bassan nell’ultima puntata della sua newsletter Ellissi. La trovate qui, insieme a una serie di considerazioni sulla corporeità delle parole nella narrazione giornalistica.
Seconda dritta è per la newsletter Ojalá di Alice Orrù, che nell’ultima puntata parla di accessibilità e di policy aziendali sul gap di genere ancora troppo opache, per questo non più tollerabili dalle persone, che esigono precisione, chiarezza, verità. Insomma, tutta la fisicità delle parole.
Noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Mi raccomando: siate corpi, cioè metteteci sempre 💖. E se vi scappa, pure uno qui sotto pigiando con il ditino.