I nomi contano
Linguetta #59 / La decisione del governo Meloni di rinominare alcuni ministeri, tra cui quello dell'Istruzione, è lo spunto per riflettere sul senso delle parole.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Ci sono parole che non facciamo fatica a mettere in dubbio, anzi che non ci viene nemmeno in mente di mettere in dubbio. Una di queste è merito.
Il dizionario delle collocazioni di Paola Tiberii dice che un merito può essere effettivo, fondamentale, indiscusso, indubbio, innegabile, notevole, particolare, personale, presunto, prezioso, principale, raro, reale, riconosciuto, singolare, speciale, specifico, straordinario.
Un merito è grande, sicuro, un merito emerge. E non è solo attivato da uno di questi aggettivi, il merito può diventare addirittura una categoria che glorifica una condotta. E a volte anche il titolo di un ministero.
Il ministero dell’Istruzione e del merito, appunto.
Scegliere le parole che descrivono le azioni (in questo caso di un ministero) vuol dire definire i contorni delle intenzioni, dire dove si vuole andare, quali strade si vogliono percorrere e quali luoghi non si vogliono attraversare.
Parole come bussole
L’indicazione è chiara: l’istruzione si mette in testa il berretto da merito e segue quell’unica rotta che punta al bottino, come una nave di pirati all’arrembaggio. Vele spiegate e muscoli tesi.
A spiegare bene in poche righe il concetto è l’insegnante Marco Viscardi nell’articolo Il merito è una fantasia sulla rivista Doppiozero:
Messo così, acriticamente, accanto all’Istruzione nel nome del ministero che si occupa della formazione e dell’educazione, il merito non racconta altro che una prova muscolare, l’espressione di un nuovo mito dell’individuo e delle sue capacità.
Il merito inteso in questo modo diventa una performance, una gara esclusiva.
La parola merito è come un Giano bifronte, che guarda il passato e il presente ma tiene fede alla sua etimologia (dal latino ianua per ‘porta’): allora come il merito è una specie di porta girevole che va e torna a sé stessa. Il petto su cui appuntare un riconoscimento per quello che si è riuscitə a fare, a conquistare da solə.
Ma come i processi linguistici ci insegnano, nessuno si forma da solo, ogni parola interagisce con ogni altra per formare la lingua. Tutto si risolve sempre nell’interazione, nelle relazioni, nella rete. Altrimenti sarebbe solo un avvitarsi dentro il proprio pensiero, nient’altro che solipsismo.
Ancora Marco Viscardi:
Il merito è quello dell’individuo, giudica la persona, si nutre di mitologie rassicuranti dove l’eroe povero vince sempre purché abbia la volontà di farcela.
[…]
La chimera del merito, coi suoi premi per i ‘bravi’, non fa altro che escludere gli altri, quelli appunto che non ce l’hanno fatta. Allora il contrario del merito non è il demerito, ma la rete — come ho già detto — il contrario del merito sono le relazioni, simmetriche e asimmetriche, che ogni esperienza di insegnamento e di apprendimento dovrebbe comportare.
Sembra paradossale ma la meritocrazia è una gabbia illusoria, perché costringe il pensiero a vedere solo e soltanto una cosa: il desiderio di distinguersi, di svettare rispetto alle altre persone.
Dire che una persona sia più meritevole di un’altra implica che quella persona si sia distinta, abbia fatto qualcosa di meglio. Ma questa cosa è vera solo se ogni persona ha le stesse opportunità di partenza (economiche, sociali) per acquisire delle competenze scolastiche, culturali, professionali.
Si vive insieme
Usare una parola come merito per intestare un ministero circoscrive la scuola in un recinto dal quale sono soltanto meritevoli, migliori, bravə a eccellere, quindi a uscire e avanzare.
L’accento ricade sulla bravura come caratteristica totalizzante di una persona. Un “Sei bravə!” inquadra e definisce.
Anche quando mi trovo a fare qualcosa con i miei nipoti oppure con bambini e bambine che incontro durante i laboratori, cerco sempre di non dire “bravo” o brava”; piuttosto “buon lavoro” o “ben fatto”, o ancora “dai, vediamo come altro si può fare”.
Raccolgo ancora le parole del professor Mauro Viscardi:
Dare del bravo a qualcuno è come doparlo, costringerlo a una dipendenza. È un atto di potere nei suoi confronti perché lo metti, magari involontariamente, nella condizione di aspettare la tua prossima approvazione, che è una approvazione a lui e non al suo lavoro. A quello che è, e non a quello che fa.
Ecco il punto centrale, che riguarda sempre il modo in cui usiamo le parole: ogni volta che descriviamo o ci rivolgiamo a qualcunə, l’enfasi non deve andare su una delle sue caratteristiche, come se fosse l’unica a definirlə, bensì sulle azioni che compie.
Gli aggettivi sono ingredienti mischiati ciascuno in parti differenti all’interno di una persona, e sono quelle cose che la rendono unica.
I verbi sono le storie che qualificano ogni persona, e sono già strumenti di condivisione con cui costruire un racconto che metta da parte i meriti e favorisca le competenze singole all’interno di un collettivo.
Una scuola (pubblica, qui l’aggettivo conta molto) serve a costruire le identità di studenti e studentesse, serve a svelare le cose che ognunə sa fare bene e pure a “tirare fuori” quelle passioni che magari non si sospettava di possedere.
Il riferimento di scuola che dovremmo tenere a mente è quello che ci hanno insegnato persone come il maestro Alberto Manzi, che diceva:
Il nostro sapere è direttamente responsabile del sapere degli altri.
Forse l’emblema di tutto sta al minuto 10’19’’ di questo video:
Fa quel che può, quel che non può, non fa.
Fare insieme non è solo una formula retorica, è un agire che serve a crescere adattandosi alle diverse andature di chi ci circonda. E per camminare in questo modo, anche i nomi contano, soprattutto i nomi.
La sintesi finale la lascio a un breve pensiero che la sociolinguista Vera Gheno ha espresso sul suo profilo Facebook:
Le parole sono “solo parole” per coloro che non ne sono mai statə oppressə. Questo è quanto mi sento di commentare rispetto alle scelte linguistiche dell’attuale governo. E a chi mi dice “lasciatela lavorare”, rispondo “lasciateci vivere in santa pace”, cosa che non accadrà a qualsiasi persona portatrice di una o più diversità.
Una parola non è mai “solo una parola”, una parola serve: a dire, fare, descrivere, soprattutto a connettere.
📚 Una scuola corale
Oggi un solo consiglio libresco però denso. L’autore è Danilo Dolci, che fu sociologo, poeta, educatore, attivista, soprattutto un maestro per le comunità siciliane di Trappeto e Partinico. E c’è un libro in cui a parlare sono le voci delle persone (piccole e grandi), spesso senza un’educazione alle spalle. Il libro s’intitola Chissà se i pesci piangono, e ci sono alcuni passaggi in cui parlano dei genitori, poco scolarizzati, che vale la pena riportare:
GIORGIO I ragazzi devono apprendere a stare insieme, a saper collaborare, coordinarsi, a saper fare un lavoro di cooperazione. A questo è collegata la pianificazione perché una persona quando sa organizzarsi, sa fare un lavoro anche con gli altri.
PEPPINO L’uomo non deve pensare a imparare solo per lui, deve imparare a pensare per gli altri, perché se impara a vivere solo per sé è niente.
Pensieri che virtualmente stanno dentro un altro pensiero espresso da Danilo Dolci nell’ultimo verso di una sua poesia:
Ciascuno cresce solo se sognato.
🎥 Family matters
Il concetto di legame mi ha fatto pensare a una serie tv che ha cambiato il nostro modo di guardare le serie tv. Era il 2004, cominciava Lost. Nella prima puntata c’è una sequenza in cui parla Jack, e dice quella cosa lì che sarà una costante per tutte e sei le stagioni. Se l’avete già vista, anni fa ci scrissi questa cosa qui su Lost. Se invece non l’avete vista, preparatevi all’immersione su Disney+.
Da una serie storica a una serie fresca fresca, che mette decisamente da parte il merito, perché quello che conta è il gruppo, anche se è la brigata scalcagnata di una cucina di Chicago. The Bear, otto puntate, Disney+.
📰 Ministeri (non) magici
☞ Per restare in tema ministeriale, su Wikipedia c’è una pagina che ripercorre la cronologia delle riforme dei ministeri dal 1999 a oggi.
☞ Invece il dettaglio sui nomi dei vari ministeri dal 1943 lo trovate sul sito ufficiale del Governo italiano.
☞ Articolo lunghetto però come al solito esaustivo del Post: s’intitola Perché il concetto di meritocrazia è controverso.
☞ Sull’argomento ha detto tanto e continua a farlo anche il giornalista Alessandro Sahebi, di cui vi consiglio di recuperare la puntata La meritocrazia è un problema dalla sua newsletter. Ah, proprio lunedì 24 ottobre ha iniziato a parlare di merito anche nelle storie sul suo profilo Instagram. Le trovate salvate in evidenza.
È tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
L’unico merito che tendo a ricordare è quello che usava mia mamma per stirare negli anni ‘90, per il resto mettiamoci cuore a fare le cose. Lo stesso 💖 che trovate qui in fondo: pigiatelo se v’è piaciuta la puntata.
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