Esercizi di parità
Linguetta #24 / Commentando le gare di Pechino 2022, telecronisti e telecroniste Rai non ce l'hanno fatta: davanti ai cognomi femminili è rimasto l'articolo.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
Anche le Olimpiadi invernali di Pechino 2022 sono diventate storia. E come per quelle estive di Tokyo 2020, ci ho sperato fino in fondo che qualcosa sarebbe cambiato sul fronte della parità di genere linguistica nelle telecronache.
Allora usciva la prima puntata di Linguetta, e parlavo proprio dell’uso dell’articolo davanti ai cognomi femminili.
Spoiler: non è cambiato nulla.
Eventi di grande portata come un’Olimpiade possono aiutare a generare un cambiamento, perché espongono il pubblico a una routine linguistica per tanti giorni di fila — così come poteva farlo il festival di Sanremo parlando di crisi climatica (altro spoiler: non è successo).
Ancora una volta mamma Rai non ce l’ha fatta a usare il suo potente megafono da milioni di spettatori e fare passare un messaggio sulla parità linguistica. E no, non si tratta solo di una sottigliezza, una fissazione di chi “gioca con le parole”.
Le parole sono la nostra più intima proprietà, le parole fanno. Diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein:
I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.
Significa che le parole costruiscono tutto ciò che ci circonda, che usare una parola rispetto a un’altra definisce le cose in maniera diversa, che usare o non usare un articolo cambia i connotati delle esistenze.
Mi spiego con qualche esempio.
Nello snowboard cross ci siamo rammaricati per l’uscita in semifinale della nostra portabandiera Michela Moioli. E il mio dispiacere si è moltiplicato sentendo che il telecronista continuava a dire “la Moioli insegue”, “vediamo se la Moioli ce la fa”, “no, finisce terza, dietro alla Jacobellis e alla Trespeusch”.
Gli esempi potrebbero continuare per qualsiasi disciplina, parlando di atlete di qualsiasi nazionalità: se in gara c’è una donna, l’articolo o la preposizione articolata piombano subito a fare da stampella al loro cognome.
Scende in pista la Brignone, la Fontana fa man bassa di medaglie, ennesimo record per la Schouten.
…però…
Delude Paris nella velocità, Fischnaller è argento nello slittino, Fillon Maillet davanti a tutti nel biathlon (e non il Paris, il Fischnaller, il Fillon Maillet).
“Eh, ma al nord si è soliti mettere l’articolo prima dei nomi!” è una delle obiezioni che ho sentito dire parlando con qualcuno della cosa.
Vero è che nel nord Italia — e in modo particolare in Lombardia — tendiamo a mettere l’articolo davanti ai nomi, e talvolta anche ai cognomi; questa però è una deriva linguistica circoscritta, alla zona geografica e alle sfere d’influenza di forme dialettali che, per loro natura, tendono a rendere tutto più informale, familiare, confidenziale. Non a caso ho sentito in passato qualcuno riferirsi a me dicendo: “chiamami l’Alesci”.
Prescindendo però da questi ristretti usi dialettali, la questione riguarda l’uso della lingua italiana che pratichiamo a qualsiasi latitudine della penisola.
E l’effetto che creiamo mettendo l’articolo davanti ai cognomi femminili (ma non davanti a quelli maschili) è proprio di tipo confidenziale: parliamo di una qualsiasi donna con tono familiare, come se fosse nostra sorella.
L’articolo davanti ai cognomi femminili crea uno scompenso di genere, mette la donna in posizione subalterna all’uomo.
Diciamo la Casellati ma NON il Draghi, parliamo della Boldrini ma NON del Bersani, nominiamo la Cartabia ma NON il Mattarella.
Ho usato gli esempi di politici e politiche perché sono nomi che ci ritroviamo in bocca o leggiamo tutti i giorni, ma vale per qualsiasi professione.
Quell’articolo attiva dentro di noi un meccanismo inconscio che il sistema patriarcale e maschilista in cui galleggiamo ci fa percepire come “normale”. Eppure è una normalità che abbiamo costruito, progettato, incentrato, definito attorno all’uomo maschio.
Anche gli aggettivi contano
Sempre nelle telecronache delle Olimpiadi invernali mi è capitato di sentire un’altra cosa che rimarca questa disparità di visione tra maschile e femminile.
Sci alpino, discesa libera.
Il regista inquadra una sciatrice che si riscalda.
Il telecronista dice: “Ed ecco la bella sciatrice elvetica che si prepara a scendere”.
Perché aggiungere quel bella? Nel caso di uno sciatore, il telecronista avrebbe forse detto “Ecco il bello sciatore norvegese”? Non credo proprio.
Qualcuno potrebbe dire: “Eh, ma non si può più dire niente!”. Sbagliato. Si possono dire un sacco di cose, con le parole giuste.
In questo caso bella è una parola fuori contesto, che certo non aggiunge o toglie nulla alla bravura di un’atleta impegnata nel suo sport; soprattutto è una parola inutile in bocca a chi deve solo commentarne le gesta.
Quell’aggettivo è fuori luogo e riduce una persona a una sua caratteristica, che peraltro ricade dentro un sistema estetico modellato sui gusti di uomini, bianchi, eterosessuali. Ma questo discorso lo riprenderò in una prossima Linguetta, perché richiede una riflessione più approfondita sulla forma mentale binaria e normalizzante della società.
Tutte le parole che usiamo, anche quelle che ci sembrano inermi perché disattivate da processi inconsci, sono parole con un peso. Riuscire a fermarci un attimo, pensarle ed esserne consapevoli è già un passo gigantesco dentro il processo di mutamento continuo che riguarda noi, la lingua e la società in cui la esercitiamo.
Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità.
P.S.
Fra i telecronisti della Rai c’è un’eccezione: si chiama Franco Bragagna ed è probabilmente (insieme a Stefano Bizzotto) il più preparato e competente giornalista sportivo che ci sia all’interno del servizio pubblico.
Solitamente commenta le gare di atletica e sci di fondo, ed è l’unico che non mette mai l’articolo davanti ai cognomi femminili delle atlete (oltre a pronunciare i nomi stranieri assecondando la fonetica delle rispettive lingue).
E allora: che Franco Bragagna sia con noi!
📚 Filosofie sotterranee
Il consiglio letterario di questa settimana è per un libro tutto rosa, perfino nei profili delle pagine. Rosa come il suo protagonista: il lombrico. S’intitola Sulla vita sfortunata dei vermi, l’ha scritto e illustrato Noemi Vola.
Un libro per piccoli e grandi, da sfogliare, guardare, leggere, per imparare ma soprattutto per dubitare, come ricorda all’inizio l’autrice. Si tratta di un libro che parla proprio dei vermi, spesso dimenticati da tutti solo perché non si vedono, perché ci girano fra i piedi e s’infilano sotto terra.
Ve lo consiglio perché è molto più che una storia col piglio della divulgazione, è un libro che nasconde tante domande filosofiche. E farsi domande è la cosa che ci riesce meglio, a noi umani. Farci domande ci serve a capire come funzioniamo, come mutano le parole per definire le cose, quindi come funzioneranno le cose che rinominiamo.
Ah, il rosa non è “il colore delle femmine”, è un colore come un altro. Ma se volete saperne di più, proprio sul colore rosa c’è un capitoletto all’interno del libro Questioni di un certo genere, secondo volume della serie Cose. Spiegate bene a cura del Post e stampato da Iperborea. Una guida per saperne di più (e parlare meglio) di identità sessuali, diritti e parole da usare.
🎧 Voce ai femminismi
’Sto giro un suggerimento per le orecchie, una puntata del podcast Shirley. Lo tiene la ricercatrice in Fisica della materia Elena Canovi e parte sempre da alcune sue letture-cacciavite, indagando spesso questioni legate al genere.
Nella puntata qui sotto c’è una bella intervista al ricercatore in Estetica Lorenzo Gasparrini attorno al tema della decostruzione del maschile.
📺 Bonus track nostalgico
Visto che ho parlato di Franco Bragagna, facciamo un salto indietro di vent’anni con il suo commento alle battute finali della 15 km in tecnica libera alle Olimpiadi di Salt Lake City 2002, quando Stefania Belmondo mi fece scattare sulla sedia vincendo una splendida medaglia d’oro.
Noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
Al solito, il 💖 per dirmi se vi è piaciuto quello che ho detto sta sempre qui sotto, insieme ai pulsanti di commento e condivisione.