Diventare responsabili
Linguetta #61 / I parchi urbani sempre aperti sono la metafora perfetta di un linguaggio orizzontale che condivide spazi e se ne prende cura.
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
La scorsa primavera sono stato in Trentino Alto Adige insieme ad alcuni dei miei nipoti (di 4 e 6 anni), e la prima cosa che si fa sempre quando sono con loro è cercare dove stanno i parco giochi.
Un parco giochi in particolare mi è rimasto impresso: il Kurpark di Villabassa, in Alta Pusteria. Si tratta di un bellissimo parco giochi, come tanti altri che ho visto in Alto Adige e in Trentino (ma pure più a sud, non è che la prerogativa delle cose fatte bene sta solo lassù); comunque, al di là dei giochi oltremodo sfidanti per bambini e bambine, della pulizia e dell’ordine, delle aree comuni ben progettate, di attrezzi giocabili anche per gli adulti, la cosa fondamentale è questa: il parco non chiude mai. Non ci sono cancelli, né recinzioni. È una zona aperta.
Questa cosa m’è tornata in mente adesso che novembre è iniziato, e che i parchi comunali dalle mie parti sono di nuovo chiusi … fino a marzo!
Niente, pare che nel corso dell’inverno la gente (piccoli e grandi umani, indistintamente) vada in letargo — almeno secondo le amministrazioni comunali.
Giù le barriere
Chiudere uno spazio fisico è come mettersi paraocchi per non cambiare i propri modi di vedere le cose, è come parlare secondo il “si è sempre fatto così”.
Le barriere fisiche sono barriere linguistiche, cioè mentali.
Il problema è che la decisione di recintare un parco ha dietro le solite motivazioni: “non c’è nessuno che controlla”, “poi i vandali spaccano tutto”, “non si sa mai chi passa di notte”.
Uno spazio recintato esprime sempre un pensiero securitario, che mette il benessere delle persone in penombra. In fondo, si tratta di un esercizio di potere, che vuole controllare ed esaurisce il suo valore civico dentro la presunta garanzia di “sicurezza”.
Eppure, se torniamo agli esempi trentini e altoatesini dei parchi sempre aperti, capiamo che il pensiero civico è l’esatto opposto: dà poteri a tutte le persone, le rende responsabili e attive in un determinato spazio. Due esempi:
Ricordo che al parco di Villabassa, davanti ad alcuni giochi che a una prima occhiata potevano apparire pericolosi, c’era un cartello che avvisava: Uso attrezzi a proprio rischio.
Poi, proprio mentre mi trovavo in Alta Pusteria 14 persone caddero nel lago di Braies ghiacciato. E quando i giornali intervistarono il sindaco di Braies sull’accaduto, lui disse di aver inviato più volte dei carabinieri per scoraggiare la gente a entrare; e ribadì che i cartelli tutt’intorno al lago invitavano le persone a non entrare, e che farlo era a proprio rischio. Ricordo che disse anche “Cosa devo fare di più, non posso certo recintare il lago!”.
Ecco, questa la posizione della responsabilità, che poi è quella dell’educazione: lasciare che l’azione delle persone sia autonoma, non costretta da divieti o recinzioni ma libera di essere praticata con consapevolezza.
Con la lingua succede la stessa cosa, perché le parole agiscono dentro di noi. E affinché quello che rappresentano si radichi in un pensiero, devono diventare scelte personali e consapevoli.
La lingua però ha anche un superpotere: è contagiosa.
Il modo in cui diciamo le cose condiziona le persone che ci circondano, quelle con cui parliamo, a cui scriviamo, tutte quelle con cui comunichiamo.
Lo spazio in cui agire è uno spazio orizzontale, che interseca gli orizzonti di senso di ogni persona, le diverse identità e le continue trasformazioni; ed è uno spazio che a differenza di soluzioni comode come divieti e recinzioni, costringe a esporsi al rischio (di subire dei danni a un parco, ad esempio) ma anche alla possibilità di affinare la propria sensibilità.
Di fatto un esercizio democratico a cui basta la faccia gentile delle parole giuste per diventare vero.
Le parole che assecondano le rispettive identità sono come parchi sempre aperti, in cui chiunque può entrare, trovare il proprio posto, curarne gli spazi comuni.
La gentilezza e il rischio sono due princìpi educativi fondamentali: una avvicina naturalmente le persone, l’altra le responsabilizza.
Consapevolmente
Niente scompensi di potere, bensì potere alle persone. Cioè potere alle parole, come recita il titolo di un bel libro della sociolinguista Vera Gheno.
Quindi, come dicevamo, parole consapevoli che ci aiutano a mettere in dubbio ciò che pensiamo di sapere, perché il dubbio è il primo passo da fare per aprirsi a nuove conoscenze.
Godere di uno spazio condiviso vuol dire vedere le altre persone, quindi capire che il nostro punto di vista è solo uno dei tanti. E per accorgercene è sufficiente fare una semplice cosa: mettersi in ascolto.
Ciascunə di noi produce un cambiamento — linguistico e sociale — usando le parole in modo consapevole e non avendo paura di sbagliare, piuttosto sapendo che ci si può sempre correggere: non esistono parole sbagliate, solo contesti, situazioni, persone per le quali alcune parole funzionano meglio di altre.
Soprattutto serve il tempo per diventare consapevoli, il tempo della goccia che scava la pietra.
Tutto cambia, anzi il cambiamento è l’unica cosa certa nell’universo.
Persone gentili e responsabili avranno cura delle parole, delle persone e delle cose, soprattutto all’interno di un parco sempre attraversabile, da abitare e che sentiranno per un pezzettino anche loro. E quando le cose ci appartengono facciamo di tutto per averne cura.
Perché la cura non è una semplice attenzione istantanea, ma un’azione che si prolunga nel tempo e che fa come i parchi senza recinzioni: si apre. Avere cura vuol dire avere a che fare, significa partecipare in modo attivo.
Come diceva don Lorenzo Milani nella sua scuola di Barbiana con il famoso I care: “Mi riguarda”, cioè mi interessa e me ne prendo la responsabilità.
Avere cura delle parole, delle persone, dei luoghi è un atto di consapevolezza su di sé. E forse il sinonimo che meglio lo descrive è amore.
P.S.
E niente, anche stavolta ho scarrocciato di un giorno rispetto alla consuetudine del martedì sera tardi. Lo “scarrocciamento” potrebbe anche ripetersi, se non addirittura scivolare definitivamente al mercoledì. In ogni caso, Linguetta sarà sempre con voi ogni settimana!
📚 Un acuto sentire
Visto che anche Charlie Brown è comparso dentro Linguetta e visto che abbiamo parlato di parchi giocabili da piccoli e grandi umani, vado con un consiglio di lettura direttamente dal fantastico mondo di Charles M. Schultz: Amore è camminare mano nella mano, un libriccino quadrato in cui i personaggi dei Peanuts compaiono in tante piccole amorevoli situazioni.
L’altro consiglio invece è un graphic novel che racconta la stessa cosa: la cura per le cose in un tempo lungo. Lo fa però parlando degli spazi vuoti tra le trasformazioni, e come dice Claudia Durastanti nella postfazione del libro:
È una botanica che si smantella da sola, fatta di parole che non esistono, per visitatori non ancora venuti al mondo e che porteranno con sé nuovi vocabolari. Una nuova lingua che oltre a sapere saprà soprattutto sentire.
Il libro s’intitola Disfacimento, l’ha ascritto la fumettista svedese Linnea Sterte ed è fatto quasi esclusivamente di tavole mute, con pochi brevissimi testi. E a dispetto del titolo è una storia di con-fusioni, contaminazioni, quindi di apertura illimitata.
🎥 Le piccole cose
Ci sono due serie tv che nelle rispettive premesse hanno un punto di contatto: la vicinanza con la malattia che fatichiamo a pronunciare, il cancro.
La prima è The midnight club e ha per protagonisti otto adolescenti con un tumore allo stadio terminale che si trovano a condividere il tempo restante in una specie di vecchio maniero lontano dalla città. Questo però è solo l’innesco perché la storia che ci sta dentro è un’altra: ogni notte, a mezzanotte, tuttə si ritrovano in biblioteca per raccontarsi una storia. Il potere delle storie vince su ogni cosa. La trovate su Netflix.
Il secondo consiglio è After Life, una serie scritta, diretta e interpretata da Ricky Gervais (se anche voi avete sempre avuto dei dubbi su come si pronunci il suo nome, ecco che ve lo dice lui). Siamo in un paesino britannico, il protagonista Tony lavora in un giornale locale a distribuzione gratuita, ci si muove fra situazioni surreali e imbarazzanti, spesso sull’onda del cringe. Eppure tutto si tiene, perché Ricky Gervais è bravissimo. Ogni cosa ruota intorno a lui, suicida mancato, vedovo della moglie Lisa morta per cancro e incapace di accettare un futuro senza di lei. Si comporta in modo rude con chiunque lo circondi però cerca di capire come continuare a vivere. E nel breve spazio di ogni puntata (30’ al massimo) Ricky Gervais riesce sempre a farci commuovere. Anche questa sta su Netflix.
Per oggi è tutto, noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
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