Bando al gergo militare
Linguetta #25 / Le espressioni belliche affollano troppo spesso titoli, articoli, bacheche social e conversazioni, plasmando il pensiero secondo lo schema del "noi contro loro".
Ehilà, eccomi con una nuova Linguetta!
La violenza che in questi giorni osserviamo in Ucraina è solo l’ultima (la più evidente per noi europei) delle guerre che ancora si combattono nel mondo. Tutti i giorni.
Ci tocca perché è vicina, perché dopo la guerra nei Balcani credevamo di essere ormai immuni alle guerre, agli schieramenti opposti.
Se un intervento diplomatico — come pare stia avvenendo — potrebbe disinnescare la feroce pazzia del dittatore Vladimir Putin, l’Europa dimostrerà a sé stessa di esistere davvero, di essere quella comunità d’intenti e azioni che recita il suo statuto.
E se riusciremo, sarà perché avremo trovato le parole giuste per accordarci fra di noi.
Sono partito dalla drammatica situazione ucraina per parlare del linguaggio che spesso ci fa stare in guerra senza ferire fisicamente nessun’altra persona.
La guerra si può fare in tanti modi, anche solo con le parole.
Lo facciamo e continuiamo a farlo anche su giornali, siti web e social, fra di noi. Lo abbiamo fatto negli ultimi due anni descrivendo il rapporto umano con il coronavirus come fosse una guerra, come se dall’altra parte ci fosse un nemico con una coscienza bellica deciso ad annientarci e non un involucro di proteine nell’ordine dei miliardesimi di metro soggetto alle leggi dell’evoluzione, dell’adattamento, e per questo in cerca di ospiti grazie ai quali proliferare.
Il ricorso al gergo militaresco mette sempre tutto sul piano dello scontro, della battaglia da vincere, quindi di un nemico da annichilire. Non conta se le dinamiche sono solo virtuali, perché quello che le parole dicono hanno lo stesso intento: zittire la voce di chi sta dall’altra parte della barricata.
braccio di ferro - lotta continua - roulette russa - fuoco alle polveri - mossa strategica - attacca il nemico - sul piede di guerra - in trincea - via libera - gli alleati - sul fronte opposto - sotto fuoco amico - scatta l’offensiva
Sono alcune delle espressioni che si possono trovare nei giornali e che contribuiscono a definire un pensiero militaristico, soprattutto per chi distrattamente scorre soltanto i titoli.
Le parole creano il mondo
Usare un certo tipo di linguaggio comporta una responsabilità e definisce un orizzonte di pensiero (anche inconscio) per chi leggerà.
Le parole agiscono dentro di noi e ci conducono all’azione, in una maniera piuttosto che in un’altra.
Certo, il gergo giornalistico è giocato spesso sulle metafore, perché il meccanismo della metafora ci determina come esseri umani. Non potremmo quasi parlare senza mai usare una metafora, perché la metafora ci aiuta a visualizzare meglio alcune cose, a immaginarle.
Il problema però delle metafore militaresche è che fomentano il pensiero oppositivo, il noi contro loro che i social network hanno portato all’esasperazione. Ancora una volta, come per le questioni di genere, finiamo intrappolati in una logica binaria.
Pro o contro, sì o no, giusto o sbagliato.
Schierarsi in questo modo riduce la complessità del mondo, perché il mondo è complesso, così come lo è ogni persona.
Finire dentro questo schema provoca sempre guerre in cui qualcuno vuole avere ragione, vuole prevalere, vuole vantarsi oppure semplicemente vuole essere guerrafondaio come il dittatore che ha deciso di invadere l’Ucraina.
Oggi la Linguetta è più breve del solito, anche se le cose da dire sull’uso di un linguaggio che separa sarebbero davvero tantissime. Rimane pure un po’ teorica rispetto alle altre, ma il concetto di base per la lingua che usiamo è che dovrebbe sempre fare da ponte, cioè facilitare.
Il contrario di fare muro, che significa ostacolare, chiudere.
Vale per tutto: all’interno di un’amministrazione, nell’etichetta di un prodotto, nella tagline di uno spot, su un giornale, in una conversazione sui social, in una discussione di condominio, quando parliamo in famiglia, nelle comunicazioni scolastiche, in una chat online, dentro i microtesti di un’app.
Le parole-ponte fanno funzionare le cose, e una cosa che funziona è in armonia, ha tutto quello che le serve. Non ha bisogno di fare alcuna guerra.
📚 Parole come abbracci
Il primo consiglio è per un libro che ho letto recentemente, scritto da Bruno Mastroianni (filosofo e consulente social per alcune trasmissioni Rai). S’intitola Litigando si impara. Disinnescare l’odio online con la disputa felice ed è una specie di corso di “lotta di strada” per imparare a stare nei conflitti quando ci si sente circondati.
Il secondo è l’albo illustrato Ponti non muri, che raccoglie le storie di 50 ponti in giro per il mondo. Lo hanno progettato insieme Giancarlo Ascari e Pia Valentinis. Mi pare davvero bello il messaggio che c’è dentro: i ponti raccontano la complessità dei rapporti umani.
Terzo suggerimento è di affondare in chi la complessità riesce a tradurla in parole e immagini come pochi oggi. Lui è Zerocalcare (all’anagrafe Michele Rech). Vi direi di affondare dentro tutti i suoi albi e di recuperare le storie che ha scritto per L’Espresso, Internazionale e L’Essenziale (per quest’ultimo giusto due settimane fa). Ma per stare su un libro solo, allora Kobane Calling: il resoconto di un viaggio che Zerocalcare ha fatto in Siria per raccontare la tragedia del popolo curdo. E di cui dice:
“A me interessa che venga capito il racconto della complessità delle persone”.
🎥 In bilico sui ponti
Visto che ho parlato di parole-ponte, la memoria me l’ha suggerito in automatico: Il ponte delle spie, film del 2015 diretto da Steven Spielberg su sceneggiatura dei fratelli Coen. Guerra fredda, una spia russa difesa da un avvocato americano per portare a termine lo scambio con una spia americana catturata dai russi. A Berlino Est. Sopra un ponte.
Noi ci leggiamo alla prossima Linguetta!
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